CarmenSita

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Mi sono invaghito al primo minuto, proprio grazie alla titletrack di un disco chiaramente ispirato ad una metodologia lo-fi. Un opera che, almeno nella sua prima parte sembra voler ricordare (per stile ed espressività) gli Hellsong, anche grazie ad una ammaliante vocalità femminile, pronta a giocare tra riverberi e back voice.

Uno scheletro espressivo che si pone ai contorni della semplicità esecutiva, dominata da un deliziosamente scarno e minimale approccio musicale, in cui un drum set, ridotto all’osso, gioca con battiti e il finger pick. Gli sviluppi emozioni non tardano a mostrarsi più intimisti ed attendisti con Don’t forget to dance, in cui stralci di Alice Tamburine Lover incrociano passaggi che stilizzano un folk in Ani di Franco style e aperture dilatate attraverso i giochi sonori di sonagli e tamburelli, sino a sensazioni iberiche dal valore ciclico. L’ eccessiva ridondanza della traccia però mostrano il lato meno convincente di un disco che ritorna sulla linea della piacevolezza con Move on, sincera anima blues che per certi versi ricorda un Pino Daniele anni ‘90. La voce lontana appare misterica e filtrata dagli spazi, mentre la componente pop armonica apre al falso finale in cui la sezione ritmica si appoggia su testi perfettibili.

Con La noia ha fame si passa alla lingua madre che destabilizza l’ascoltatore deformando gli orizzonti emotivi, ponendo l’accento su di una sorta di pop indie i cui cambi direttivi paiono moderati e calmierati da una struttura sonora mai coraggiosa. Ma talvolta l’audacia non è la giusta direzione da intraprendere, proprio come dimostra la bellezza esecutiva di She’s Godness. Una voce filtrata i cui rimandi evocativi agli anni’50 d’oltreoceano aprono deliziosamente un’area jazzata, che da sola sorregge l’intero disco grazie ad espressività e mood.

Se poi con Trouble si aggiungono piccoli battiti hammond, tra wah wah e sensazioni orientaleggianti, è con i cromatismi espressivi di Deep water che il disco giunge ad una anelata aurea soffusa ed osservativa, pronta a lasciare spazi e reminiscenze “Grandi”.

Un album che conquista e tradisce, proprio come il suo digipack lucido che, con suo sgargianti colori cattura un’attenzione che ancora non trova la quadratura di un magico cerchio solo parzialmente accennato.

1. Outta Kali Phobia
2. Don’t forget to dance
3. Move on
4. La noia ha fame
5. She’s a godness
6. Trouble
7. Deep water