Chaos Conspiracy “Who the fuck is Elvis?”, recensione

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Move Your Brain Arm Your Hands

Siete pronti alla meticolosa scienza del disordine? Siete pronti ad un’esperienza contestataria e destabilizzante in cui l’onore ancestrale di Elvis Aron Presley viene macchiato dall’accusa di essere solamente il re del business e non certo il re del Rock? Siete pronti a digerire il provocatorio titolo (Who the fuck is Elvis?) di questa nuova release dei Chaos Conspiracy?

Se siete davvero pronti, allora inoltratevi pure tra le increspature di un disco pronto a dichiarare immediatamente il proprio dissacrante approccio. Un invito urtante nelle metropoli di un chaos proto-fantascientifico, all’interno del quale si palesa un deciso attacco frontale alla corrotta società ed ai suoi idoli, oltreché alle sue deificazioni contorte e marcenti. Dunque, il tempo malsano in cui (non) viviamo è nuovamente sotto attacco; indossare la maschera a gas è un’altra volta necessario, sia come atto salvifico dovuto, sia come necessità di reazione al conformismo fagocitante.

Da queste premesse parte la metaforica lotta contro coloro che ci stanno rubando quelle emozioni (…you can strike, you can dare to assert the life they are robbing you of!) raffigurate dal meltin pot sonoro della band italiana, pronta a riversare una progettazione sonora ragionata e affinata attorno alle partiture esclusivamente legate a sonorità divergenti. Un afonia descrittiva che, nonostante l’assenza della linea vocale, ancora una volta avvolge l’ascoltatore attento, in grado di percepire gli strumenti come elementi legati imprescindibilmente ad un unico corpo; un cerbero artistico che comunica spigolosità e aberrazione, assestata tra venature alternative che si ritrovano in spazi noise, free jazz e ampiamente rock.

Il nuovo album, legato alla OverDubRecording, nuova costola della Worm Hole Death, raccoglie otto tracce che sembrano assimilare i nereggianti colori dei Tomydeepestego e la viralità espressiva de Le scimmie, mostrando di sé un lato ancorato ad un ego saldo e creativo, ottimizzato nel muoversi attorno a titolazioni genialmente urtanti e provocatorie.

Ad introdurci in un percorso sonoro vicino al mondo di Xunah Mirolli e Mario Serrecchia è l’operner I don’t wanna be your I pod, dalla quale una batteria ruvida arriva a definire un andamento che, pur nascondendo un r’n’r classico, finisce per autoalimentarsi in una struttura strumentale dedita alla distorsione ipnotica. Il chaos controllato (e voluto) si immerge poi tra gli spigoli di Magellano is not a dildo, da cui si ergono spezie noise non troppo discostate dagli ideali espressivi di Xabier Iriondo, proprio come accade con la titletrack, in cui il rumorismo controllato si fonde ad un’avvolgente bass line, pronta a gestire la concettualità dell’attesa tra false ripartenze ed ossessivi pattern sonori.

Se poi con Stanislav give me the Semtex l’uso battente della ritmica apre le porte ad un riff proto stoner incastonato tra nervose intelaiature e flussi di coscienza, è con la linea più cupa ed angosciante di From yhe cage to the Maze, che si ridefiniscono piccoli scatti alla sei corde, atti ad un rimando oculato verso le metodologie crossover dei primi anni 90, qui immesse in un circuito alternativo ed alternato nei suoi colori.

A completare le virali percezioni sono infine le sensazioni prog di Leibniz was a liare l’esposizione velatamente free jazz di Calogero Theory, da cui si dipana un curioso fil rouge, che delimita il perno espressivo intorno al quale le partiture, sempre più coraggiose, vanno a raccontarsi all’interno di un album crudo nelle sonorità avvolgenti, che come un colpo in viso cerca di svegliare gli astanti da un torpore musicale e sociale, accecato dall’ipocrisia ed dal convenzionalismo.