Dead Man’s Blues Fuckers Phase II, recensione

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Un sottile digipack dominato dai toni seppia. Una curatissima cover art in cui Gianfranco Hen Enrietto riesce con la sua arte grafica a raccontare con ironia le linee precise di una struttura grafica interposta tra mondo bikers e tattoo old school.

Partono da questa inequivocabile veste i Dead man’s blues fuckers, potente duo nato come naturale evoluzione della onemanband di Diego Deadman Potron, pronto ad emergere dai fondali vivaci e ridenti dello stoner undergrond assieme alle bacchette di Christian Amen Amendola. Mostrandosi capaci nel perseguire un sentiero impolverato, il duo palesa una straordinaria e premeditata assenza di lucidità, di cui non si hanno sentori tra le pieghe delle dieci ruvidi tracce curate da Femore Produzioni.

Un mondo ricco di inquietudine psycho-blues e cupezza rock, qui illuminata da gradevoli rimandi vintage che valicano i confini dell’atteso mostrando aliti prog e desert. Gradienti concreti e ideali nel definire una realtà da ascoltare e scoprire, mediante la piacevolezza descrittiva di un mondo sommerso, che ancora riesce a dare più di quanto riesca ad ottenere. Un disco che, pur consapevole di alcune ombre legate agli arrangiamenti, si presenta colmo di ribassamenti applicati e note reali, in cui la linea vocale si pone sul medesimo piano del percorso sonico, quasi a voler rinverdire un piacevole sentore lo-fi.
I pulviscoli iniziano ad alzarsi sulle note di Blind sister’s home, arida e impolverata stazione di partenza da cui il viaggio onirico principia attraverso innesti e cambi direttivi, pronti ad attecchire sulla via principale del percorso di questa riuscita Phase II. Un’impronta reiterata ci porta con naturalezza verso i calcati sentori prog, le cui sensazioni filmiche ci invitano all’ascolto di The power of your love, dilatata e ideale nell’ospitare nel proprio alveo una struttura granulare e stonerizzata, pronta a rimodulare l’empatia musicale che funge da anticipazione ad un finale pronto a ripercorrere le linee portanti.

Mentre poi l’accordatura ribassata delle toniche imponenti di Black woman, vola a definire i contorni di un habitat occludente e fagocitante, con Birthday cake (e le sue perfettibili sensazioni souther) ci ritroviamo al di fuori del piacevole fil rouge, istintivamente alimentato dall’armonia easy listening di The corkfields queen brotherhood, ballad distorta in cui l’ottimo e portante riffing si unisce a strofe seventies.

Torniamo infine sugli spigoli collinari dello stoner con One kind favor, sino a raggiungere il lontano ovest, raccontato da una citazionistica sei corde che si definisce attorno a sensazioni S.o.a., vitalizzate da una struttura sonora perfetta, senza dubbio annoverabile tra le migliori sensazioni dell’intero album. Un anthem riuscito, in cui il drum set gioca libero rispetto alle impronte evocative donate dalla chitarra, pronta a viaggiare libera verso aperture sonore atte a rendere il tracciato lisergico e modulato sino agli animi calmierati di Song for Mr.Occhio e agli ultimi aliti sonori del gran finale (The place for you).