Dola J, Chaplin “To the tremendous road”, recensione

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Lo stile si vede da come ci si pone nei confronti di quella società fatta di individui; è l’elemento portatore di particolari specifiche, oltre ad essere quell’insieme di tratti formali che caratterizza il codice espressivo di ognuno di noi, non solo attraverso il linguaggio verbale, ma di certo anche attraverso un attento approccio estetico ed esteriore.

Basta portare alla mente la filosofia che si nasconde dietro ai molti movimenti culturali legati alla musica, per renderci conto che spesso la nostra seconda pelle rappresenta qualcosa in più della superficialità che molti tendono a dare a mode, movimenti o concettualità apparentemente disadeguate alla norma. Ancora oggi, come ieri, molti artisti ricercano proprio quella tipologia di comunicazione visiva, in maniera da raccontare molto di più, ancor prima dello stesso ascolto chiarificatore. Idee, intenzioni e atteggiamenti possono essere precisati dagli essenziali strumenti che un disco spesso non sfrutta a sufficienza quali cover art, packaging e booklet.

To the tremendous road rappresenta il perfetto esempio di come un packaging riesca a raccontare molto, ancor prima di essere ascoltato. Un cartonato nero opaco su cui vivono le magnifiche fotografie surreali di Arianna Fiore, piuttosto attenta a magie pittoriche che, in collaborazione con l’artworking di Alessandro D’Aquila, ottiene emozioni in perfetta armonia con le 12 tracce dell’album.

Il disco promosso dalla Polyproject Protosound sotto l’egida sinergica della Volume! Records e Cramps Music, segna il brillante esordio di Dola J.Chaplin, talento della nuova generazione di songwriter, intento a rimestare intimismo compositivo attraverso una (sur)reale necessità di semplicità, che si fa nobile anche grazie a Enrico Bernard che ha riconosciuto tra le note indie di questo platter, una sentita forza compositiva di grande impatto.

Detto questo forse appare superfluo porre attenzione all’aria Sufjan di Go wild, oppure al granulosa alt country di Your’re on my mind e Flowers, come potrebbe mostrarsi inutile analizzare quelle soffici emozioni che trapelano dal delicato violoncello di Frost ‘neath the nails e dall’armonica Sparklehorse di Drivin South.

Per una volta, infatti, mi sono imposto di non invitare il lettore nel classico volo sognante tra le tracce affinché ognuno riesca così, senza suggerimenti, a percepire una tradizione cantautorial-indie, che occupa spazi esecutivi capaci di partire dal commercial Bruce sino al mondo Shootenanny!.