Elbow Strike “Planning great adventures”, recensione

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L’elbow strike, nome non così immediato per i profani, rappresenta un colpo utilizzato in molte pratiche di combattimento sportivo; un gomitata violenta e rischiosa, che trova la sua genesi nelle arti marziali di stampo tradizionale. Il monicker, scelto dal quintetto triestino, appare senza troppi dubbi, metafora accorta delle sonorità dirette e pronte a colpire l’ascoltatore grazie alle sue strutture fondamentalmente rock, innestate su intelaiature cripto-stoner e fortemente post grunge. Proprio ad acuire questi rimandi all’ovest del Washington State, è sin da subito la vocalità di Chris T Bradley, molto vicina a quella di Cornell.

L’album, pur partendo da un bizzarro ed estraniante concept alieno ( a dire il vero non facile da digerire), sembra voler perpetrare un’allegoria del mondo quotidiano, attraverso la ridefinizione di quadri concettuali apparentemente slegati dal reale. Infatti, il disco si presenta con coraggio, partendo da quello che a mio avviso appare l’unico passo falso: la cover art. Proprio la copertina del vincente full lenght ( ma ormai abbiamo imparato che la Go Down Recors difficilmente sbaglia nel scegliere i propri artisti) rappresenta l’anello debole, a causa della sua anima fuorviante ed i suoi contorni mal definiti, proprio come accade per il booklet, alquanto approssimativo e retrò, inabile a rende merito ad un debut di caratura. Non ci sono dubbi infatti nel considerare questoPlanning great Adventure, come uno tra i migliori dischi di questo dicembre 2013. Un rock puro che viaggia tra southern, heavy e blues in maniera diretta e pulita.

Le melodie, quasi sempre centrate, emanano l’energia dei Foo Fighters e l’ispirazione creativa dei Soundgarden, proprio come dimostra l’incipit Elbowstrikemofos che, pur mancando del giusto groove, deforma le idee mature di Cosmic pleasure, in cui spezie space si uniscono a sentori Stone temple pilots. Un puro hard rock che, tra guitar solo e partiture lineari, rimanda agli anni ’90, trascinandoci verso l’ottimo attacco rock’n’blues di Stoneman , pronta a rivisitare il peso stoner attraverso il featuring di E1Ten, bravo nel vitalizzare la bella Waiting for the sun.

Il viaggio prosegue senza soluzione di continuità con le pelli in Mommalscookingchips, coraggiosa traccia derivata da sensazione sopra le righe, ridisegnate attraverso concetti legati al roots rock e a stranite forme cow. Se poi con Monster si arriva a percepire un sapore ’80, a sorprendere realmente è l’entrata acustica di TokioTown, una sorta di ballad in grunge style che si abbandona a vie differenziate tra stop and go e corde stoppate.
Non mancano infine curiosi rimandi al mondo di Zack Wylde (U.F.O.), nè forme di oscura psichedelica (Winter Night), calmierate dalle strutture easy di We’re not alone.

Insomma un disco tanto semplice e diretto quanto bello e convincente.