Elle “Nowhere but here”, recensione

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Non importa chi (Elle) sia, ma chi voglia divenire.

Proprio questo… sembra dirci l’esordio discografico della cantautrice licenziata dalla Impronte Records. Nove tracce intense ed espressive al servizio di un disco acuto e maturo che, pur peccando (a tratti) di eccessiva sicurezza, si palesa come pop d’autore dalle pretenziosità indie. Un animo dagli orizzonti alternativi, che viene a palesarsi sin dal primo ascolto, nel cuore espressivo dell’opener. Infatti, la traccia d’apertura, senza troppe ombre, arriva prima a definire una accentuata linearità vocale, e poi a restituire polveri alternative country, tra la dolcezza della sei corde e le avvolgenti linee di basso.
Il brano conquista senza troppe ombre intrinseche, anche grazie ad una pronuncia anglosassone davvero perfetta e credibile che, unita ai colori caldi delle sue sonorità, dona il giusto incipit ad una album elegante quanto il logo in cover art.

Il viaggio tra le note patinate dell’autrice attraversano l’easy listening di Killing my love e l’anima acustica di A new life, per approdare alle invidiabili tonalità vocali di Enlightens, che a tratti porta alla mente l’immortalità degli Evanescence. Se poi trame quali She’s alone e Let me be your eyes non sembrano trovare il giusto vertice, è con la titletrack che Elle scorge il proprio climax stilistico. Un brano limpido in grado di attivare sinapsi inermi e donare profondità mediante gli accenti sonori degli archi.

Un disco delicato che, come dimostra la magnifica A lie, non ha nulla da invidiare ai percorsi artistici di Shania Twain e Sheryl Crow.
Insomma, nove liriche magicamente dettate da una straordinaria voce, capace di ammaliare gli astanti come una sirena fascinosa ed incantevole.