Fabrizio Paterlini “The art of the piano”, recensione

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Brani per pianoforte…per ricordare da dove arrivo.

Molto spesso è necessario un veloce sguardo per capire quanto l’iconografia possa raccontare di sé. L’arte di classificare ed interpretare le immagini, molto spesso arriva a costruire in maniera determinante significato e significante di allegorie celate. La potenza espressiva della cosiddetta iconologia, volente o nolente, sembra, sempre più spesso, arricchire l’emozionalità acustica di un disco, attraverso l’interpretazione dei simboli e delle proprie allegorie.

Proprio da qui si parte per giungere tra le righe riflessive di The art of the piano, la cui ammaliante cover art, interposta tra il surreale e l’astrattismo, sembra voler raccontare le sensazioni filtrate dalle partiture. Le mani, allegoria cromatica di note ed alterazioni, paiono sospese e leggiadre in uno spazio oscillante tra infiniti silenti, che si ergono tra i mutismi razionali della perfezione sferica, metafora celata di composizioni circolari e tenui.

Infatti, questa nuova e nuvolare composizione di Fabrizio Paterlini, accorto pianista mantovano, appare come un disco visto e vissuto attraverso lo sguardo della melanconia razionalizzata in forma di note. Canzoni libere e lievi, incise su di un bianco vinile in limited edition che si accompagna alle esigenze moderniste del digital download acquistabile (…e fatelo…non perdete tempo…fidatevi!) dall’official site.
L’approccio armonioso e minimale del compositore arriva a rispolverare movimenti neo classici, attraverso brani dalla contenuta durata che, a differenza di alcuni colleghi mainstream, sembra voler vivere della propria luce, animata dai cromatismi caldi ed avvolgenti.

Il delicato viaggio tra le note bianco nere è dato a battesimo da Somehow familiar, un dolce risveglio tra le gocce musicali di un pianoforte osservativo ed emozionale; una piccola perla elegiatica che ci strascina delicatamente verso un ambientazione gradevole ed elegante. Con Midsummer tiny song le lievi e delicate melanconie appaiono conformi alle sensazioni velate del titolo stesso, per poi maturare attraverso le educate linee di My piano, the clouds, composizione cupa e avvolgente, i cui rimandi deliziosisamente Yann Tiersen raccontano accordi base, su cui le note più acute viaggiano ad occhi chiusi. Un incrocio di magiche immagini ipnagogiche, che per facilità di ascolto e per nobile arte compositiva, si palesano tra i momenti migliori dell’album.

Sul medesimo orizzonte annoveriamo Conversation with my self intimista, soffusa e vaporosa, ed i tratteggi più cupi e minimali di Broken , i cui rimandi Einaudiani aprono la via verso la degna chiusura dell’album: wind song. Un delicato acquarello dai cromatismi ben delineati, in grado, come il disco tutto, di avvolgere l’ascoltatore in un fatato mondo limpido, interposto tra arguta pacatezza e sognante (non)realtà.