Fabrizio Testa “Music for adriatic colonies”, recensione

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Osservando la fotografia che capeggia sull’art work di Music for adriatic colonies , ho avuto la sensazione di una viscerale perdita di orientamento, non solo geografico, ma anche temporale. Un immagine che restituisce all’osservatore attento un’idea di immobilismo dittatoriale; un enorme ed inquieto palazzo sviluppato in modalità orizzontale, perfetta metafora di una quotidianità persa nelle brutture e nell’arrendevolezza. Un manifesto cheto dell’aberrazione architettonica, i cui rimandi stalinisti sembrano ricoprire un richiamo all’Alex di Kubrick, inchiodato, proprio come le partiture del disco, ad un mondo cinico e nichilista, che non si può rifuggire.

Il passaggio sotto le finestre del mondo voluto da Fabrizio Testa inizia con un profondo inchino alla cupezza diluita ed oscura; un angosciante minimalismo che si apre ad un sapore melanconico, misto sentiero tracciato su impianti jazz e pseudopsichedelia vintage. Le voci dei suoni si materializzano, senza soluzione di continuità, nella profondità di Angelo Contini, per poi ergersi verso le altezze del sax soprano, chiave di volta del percorso ideato dai tasti bianco neri di Testa, spesso collante naturale delle tracce brevi, apolidi e prive di riferimenti semantici.
Il disco racchiude, con naturalezza, una miriade di visionari movimenti, talvolta emergenti altre volte purificanti, ma sempre ancorati al grigiore di una quotidianità tetra ed osservativa.

Gli echi e le diluizioni invitano l’ascoltatore a raggomitolarsi attorno al proprio esistere, porgendo lo sguardo verso le analitiche propensioni di un mutamento onirico, per certi versi calmierante. Un mondo sonoro in cui tetraggine e colore si incontrano alle le note del clarinetto basso di Marco Colonna, per poi lasciare spazio ad inattesi momenti altronici e a sviluppi stabilizzati, che travisano la speranza di un’apertura emozionale, giungendo ancora una volta a concretizzare le deliziose pagine desolanti di un reale poeta contemporaneo.