Fabrizio Testa

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Esattamente un anno fa arrivò in redazione un piccolo gioiello estetico della Soundmetak intitolato Contraddizioni, mini disc racchiuso in busta di tessuto cucita a macchina, splendore estetico di una metafora calibrata sul rifiuto per un mondo globalizzato e stretto attorno ad una manciata di valori addensanti. Oggi dopo alcuni mesi, ci ritroviamo stupiti e accoglienti a parlare di Mastice, opera avanguardista di Fabrizio Testa che, insieme a Andrea Dolcino, rappresenta anima e corpo della Tarzan Records.

Il disco, racchiuso in una hand-made cover in tessuto, vede la luce in edizione limitata, spinta dalla forte vocazione allo sperimentalismo sonoro, avvolto in un suono poliedro fondato sull’accorto songwriting dell’autore. La delicatezza estetica del packaging, davvero unico, si scontra con i cromatismi sonici che vanno ben oltre al bianco opaco dell’arte voluta da Elisa Giannotti, avvicinandosi per certi versi alle surrealistiche e daliniane illustrazioni che accompagnano il (non) booklet interno. Infatti ogni disco, dei cento messi in vendita, ospita un disegno china e matita firmato da Laurent Degonville, capace di tradurre in grafia il corpo delle idee musicate in questa curiosa release.

L’album risulta conforme al mondo Tarzan, anche solo per il fatto di prevedere forme comunicative inusuali che, grazie alle numerose guest star, si assestano attorno ad una convincente linea espositiva, stimolante ma tutt’altro che easy listening.

Ad aprire il racconto è Alce e Martello, citazione vendolaniana che vede Roberto Bertacchini alle prese con una voce d’ avanguardia, stretta dietro ad un minimalismo dalle libere sensazioni jazz; un free minimale che si accartoccia alla linea di cantato iper-teatrale, atto nella sua scomposta posizione a colpire l’ascoltatore sorpreso dall’ assordante silenzio.Il percorso intrapreso sembra, sin da subito, quello del voler raccontare un’assenza di armonia, sostituita a tratti da un uso scarno delle percussione e da un sax libero di riempire la follia descrittoria.

Con Senza orfanità , invece, ci avviciniamo lentamente ad una forma canzone, in cui la voce perde la sua insania schizoide per assestarsi vicino alla concettualità sussurrata della melodia, portata all’estremo in maniera quasi facilitante. L’ausilio di Cesare Malfatti racconta di una traccia guidata da accordi diluiti, caratterizzati da l’incontro sottile tra sapori vintage e la necessità di alternatività riflessa da echi e riverberi. Se poi con Crudo la polvere gracchiante di un vecchio vinile ci porta tra lontane voci cupe e calmieranti, con Marco Pierantoni il disco si stringe attorno allo spoken word di matrice offladiscopaxiana, per poi annerirsi in maniera USBM con la follia contenuta di Le terme e la scompostezza di Cesenautico, in cui ossessivo malessere in reverse, anticipa la splendida titletrack, i cui orrorifici 90 secondi, paiono bagnati di una sofferenza cupa e nereggiante, una piccola e ferita scatola vuota in cui l’horror enigmistico trasuda grigiore e ruggine.