Fankaz “Burning leaves of empty fawns”, recensione

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Non ho troppi dubbi nell’affermare che se mi trovassi in una pinacoteca, starei ore ad osservare un’opera come quella descritta dall’arte visionaria di Alessandro Poletti, anima creativa della splendida cover art di Burning leaves of empty fawns, nuovo album dei Fankaz.

L’opera visiva del full lenght calamita le attenzioni in maniera claustrofobica, attraverso una coraggiosa mescolanza di tecniche che sembrano richiamare incisioni e movimenti di spatola. La creazione, distruggendo all’unisono regole del terzi e sezione aurea, impronta i suo centrismo attraverso la glaciazione di colori caldi che sembrano dar vita inquieta al fulcro espressivo della copertina, in linea con la perfetta strutturazione dei font e di un logo accattivante e diretto.
Il perdersi tra le immagini del booklet (escludendo la pessima fotografia che immortala la band) ripaga della mia personalissima lotta contro la musica fluida. Ascoltare i 14 brani attraverso la complementare osservazione di colori, font e formattazione sensoriale non ha prezzo. Infatti continuo a pensare che un album come questo possa aumentare la propria forza espressiva, proprio grazie ad un packaging accorto e ad una strutturazione dei dettagli che in questo caso meriterebbero versioni deluxe.

Dunque, oltrepassando la forma, arriviamo a quella sostanza che la OverDubRecording ha voluto a sé, forte di un lavoro attentivo nei confronti di un Lp che convince appieno solo dopo alcuni ascolti. Infatti il disco, pur proponendo brani diretti, necessita di una ascolto potenziato, per riuscire appieno a cogliere le diversificate sfumature. A definire l’entrata nel mondo dei Fankaz è un’interessante introduzione sonora, supportata da uno spoken word pronto a lasciare spazio ad un’inquieta struttura ridondante, in cui l’ottimo uso delle pelli definisce i tempi claustrofobici, che si ergono ad orrorifiche atmosfere nell’outro, piuttosto disorientanti rispetto all’anima Skatecore che pervade il disco.

La band mostra nell’immediato ( A world on fire) una virata emotiva verso sonorità terminali degli anni’90, definendo uno sguardo verso un mondo in fiamme, attraverso un songwriting genuino, ma tutt’altro che banale. Un viaggio libero che colpisce nel segno con We are broken, tra ruvidità canora e estratti melodici, impostati su riff accoglienti ed una sezione ritmica battente, che modifica il suo andamento più volte mediante chorus e andamenti agogici inattesi. L’immediatezza di Breath out, breath in, non sembra essere sul medesimo piano esecutivo di The comedian , ben congeniata e diretta. Il brano, annoverabile tra i più interessanti, si pone in un crocevia di sguardi Offspring (prima maniera) e Bad Religion, proponendo, non solo un granitico e andante groove, ma anche un intervento complementare e piuttosto riuscito della voce di Alessio dei Bleed Someone Dry. Proprio il frontman pistoiese offre il suo featuring anche nella caustica No think ed in I’m so fuckin’ Pissed off, traccia grezza ed urlante, resa perfetta dagli accenni growling e dalle distorsioni chitarristiche.

Se poi con Break on chains ritroviamo riff che, nonostante l’impostazione Skatecore melodico d’insieme, potrebbero convincere Dave Murray, con Lost Memories si inizia a percepire la necessaria voglia di osare oltre ai propri confini. In questo, almeno in parte, contribuisce la pulizia vocale di Martina Ardizzoni, voce dei Decode, in grado di sventrare i cliché del genere.

Insomma, un disco che, nonostante 14 tracce (solitamente troppe per i mie gusti), si presenta fluido e trainante, ma, senza troppi dubbi, indirizzato ai soli amanti del genere… io lo sono, e questo disco lo comprerei!