Fulvio Boccafusco “A Short Story”, recensione

boccafusco.jpg

Eleganza e tecnica, improvvisazione e ordine.

Signori, ecco a voi l’ultimo figlio legittimo della Fitzcarraldo Records: A Short story.

La nuova opera della label siciliana arriva a noi grazie all’arte compositiva di Fulvio Buccafusco, eclettico contrabbassista palermitano, qui presente in sinergia artistica con il sax tenore di Stan Sulzmann, il pianoforte di Nikki Iles e la batteria di Ettore Fioravanti. Un quartetto d’elite, immerso tra i germogli del jazz più genuino, in grado di raccogliere i propri stilemi fondanti, per poi rivestirli di un’accorata dose di inventiva, atta a trovare pieno sviluppo grazie alle 8 tracce di questa piccola e deliziosa storia musicale.

Il disco, che probabilmente avrebbe funzionato al meglio con una più ragionata e limitata durata, si palesa attraverso atmosfere emozionali, dalle quali si parte e si arriva in un continuum narrativo vitale e vitalizzato da suoni (s)comodi ed espressività non troppo lontana dal free. Registrato in presa diretta, l’album si nobilita di una ricerca compositiva raffinata e garbata, posta ai confine del voler essere e non tanto del voler apparire.

La breve storia, nel suo insieme, si palesa come caratterizzata dalle fattezze modellate di un delicato crocevia, metro selettivo di sensazioni mediterranee, che tendono a non dimenticare le venature d’oltremanica. Animato dalla spontaneità dei suoi autori, il full lenght restituisce apparenti sbavature, in grado di definire i contorni di un gradevole colore cromatico.

Tra i brani più ammalianti sembra ergersi Keep Smiling, tracciato dominato dalla libera funzionalità del sax, che esegue un monologo espressivo e teatrale, posto su di un delicato pattern. Una serie di accorti colori jazz pronti ad amalgamarsi, ricreando diverse tonalità, di certo scaltre, ma non eccessivamente didascaliche. La prima traccia, al pari di House of spice , va a cambiare la propria pelle come in una sorta di micro suite, da cui fuoriesce una spensieratezza pronta a rivestirsi di un’aurea osservativa ed autunnale. Mentre Il bacchettio del drum set si accompagna ad un pianoforte dinamico e snello, il trait d’union sonico arriva a ripercorre a ritroso il cammino, fino a giungere ai momenti iniziali.

Se poi gli sviluppi soffusi e sussurrati di Blue Batterfly, mostrano i tasti bianco neri come introduzione elitaria, la ricercata sensazione cromatica del blu inteso si ottiene attraverso la libertà espressiva di A short story, grazie alla quale il disco, talvolta orfano di reali picchi espressivi, trova l’apice del climax passionale, iniziato ai bordi dello slapping di Il giardino dei tarocchi.

Un disco arguto e nobile, sul quale sarebbe meglio non chiosare, in quanto, troppo spesso, ci si ritrova a parlare bene del jazz solo in quanto tale… dunque, in questo finale aperto, non ci resta che ascoltare e decidere in autonomia a quale tipologia di disco siamo di fronte.