Giuseppe Verdi – Il Trovatore, teatro dell’Opera di Roma.

Giuseppe Verdi

Il Trovatore

Melodramma in quattro parti di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi

Teatro dell’Opera di Roma
28/02/2017

Manrico: Stefano Secco
Leonora: Tatiana Serjan
Azucena: Ekaterina Semenchuk
Il Conte di Luna: Simone Piazzola
Ferrando: Carlo Cigni
Ines: Reut Ventorero
Ruiz Alejandro Mariani

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore: Jader Bignamini
Maestro del Coro: Roberto Gabbiani

Regia: Alex Ollé (La Fura Dels Baus)
Scene: Anton Flores
Costumi: Lluc Castells
Luci: Urs Schonebaum

Quest’anno l’Opera di Roma ha deciso di allestire tutte e tre le opere che costituiscono la nota Trilogia popolare verdiana. Eccoci alla seconda delle tre.

Con il Trovatore Verdi torna alla struttura “classica” del melodramma post rossiniano dopo la rivoluzione del Rigoletto.
Lo spettacolo purtroppo non è riuscito molto bene, a causa della scelta del cast di voci in gran parte non adatte al ruolo e alla regia che (come sempre più spesso accade) se ne va da tutt’altra parte rispetto alla musica.

La direzione del Maestro Jader Bignamini è stata impostata su tempi piuttosto spediti e soprattutto su una notevole irruenza sonora, quasi bandistica in certi momenti. A volte sono mancati i dettagli e le sfumature tipiche di quest’opera, il che appare strano poiché lo stesso Maestro si è dimostrato in diverse occasioni un buon interprete verdiano. Come nota positiva gli va dato atto di aver eseguito l’opera integralmente, senza le solite tremende mutilazioni a cui siamo disgraziatamente abituati (anche nella discografia).
L’orchestra ha suonato molto bene raggiungendo un perfetto equilibrio sonoro tra le varie sezioni, eccezion fatta per alcuni fortissimo in cui l’ottavino ha sopraffatto tutti gli altri in un impeto di entusiasmo.

Ottima la prestazione del coro.

La Leonora di Tatiana Serjan è stata la sorpresa più brutta della serata.

Cantante già nota e apprezzata per il suo timbro leggermente scuro, sorretto da un’ottima tecnica che le ha sempre permesso di riuscire molto bene e di addolcire le naturali asprezze della voce, stavolta non ha potuto raggiungere gli ottimi risultati a cui ci aveva abituati. Dico che non ha potuto perché la sua voce è sembrata rovinata, come se negli ultimi anni si fosse sforzata eccessivamente. I suoni emessi risultavano estremamente aspri, a volte ingolati. Ne è risultata una Leonora lontana mille miglia dal personaggio puro e lirico che Verdi ha scritto perché lo stato della sua voce non le ha permesso di esprimerla. Nella seconda parte della serata le cose sono leggermente migliorate grazie alla sua ottima tecnica che le consente ancora meravigliosi passaggi in pianissimo, sfumati ed in mezza voce.

Lo dico con sommo rammarico perché da oltre cinque anni canta in questo teatro (anche sotto la bacchetta del Maestro Riccardo Muti) interpretando ruoli molto impegnativi sempre con ottimi risultati. Mi auguro di cuore che possa riprendersi quanto prima e tornare a entusiasmarci come ha già fatto in passato.

Stefano Secco ha sostenuto la parte di Manrico in sostituzione di Marcelo Alvarez, indisposto. Voce piccola, da tenore leggero, decisamente non adatta a questo ruolo. L’emissione era un po’ precaria, con alcune note ingolate dopo il passaggio di registro.
Ha voluto fare il do acuto alla fine della seconda ripetizione della Pira, decisamente male emesso. La fatica di interpretare questo difficile personaggio ha creato un Manrico poco eroico e piuttosto incolore.

Resa decisamente migliore per il personaggio di Azucena, interpretata dal mezzosoprano Ekaterina Semenchuck. Forse la migliore dei quattro protagonisti, decisamente quella più a suo agio nel ruolo di donna ossessionata dal rogo della madre e dal desiderio di vendetta. Bel timbro pieno con tecnica solida con buon controllo dell’emissione in tutti i registri, dal grave all’acuto. La sua è stata l’interpretazione più convincente.

La parte del Conte di Luna è una delle più impegnative per la voce di baritono. Richiede voce potente e perfette capacità tecniche a causa della tessitura molto acuta.

Simone Piazzola, già apprezzato come Renato nel Ballo in Maschera dello scorso ottobre, ha una voce forse un po’ troppo piccola per questo ruolo. Ciononostante l’ottima tecnica e la grande abilità interpretativa lo hanno reso un Conte decisamente credibile e calato nella parte. Notevolmente riuscita l’aria del secondo atto “Il balen del suo sorriso”, unico momento di grande lirismo di un personaggio altrimenti “cattivo”.

A complicare le cose si è messo l’immancabile genio registico che, in un teatro così grande, ha posizionato il baritono spesso piuttosto indietro sul palco e non verso il proscenio, cosa che lo avrebbe aiutato alquanto…

Veniamo quindi al punto più dolente: la regia. Da qualche anno nel mondo dell’opera vige un imperativo assoluto: innovare. Le regie “tradizionali” (qualunque cosa questo termine significhi) sono ormai viste come fumo negli occhi. Non se ne può nemmeno parlare.

Nella fattispecie di questo povero Trovatore, l’Innovazione ha portato ad ambientare le vicende in un grande cimitero con filari di tombe che ogni tanto venivano sollevate diventando pilastri o addirittura fluttuando nel cielo e lasciando sul palco grosse cavità rettangolari che immagino dovessero rappresentare una specie di trincea. Niente castelli, accampamenti di gitani, oscure celle e quant’altro. Solo tombe che facevano su e giù come un pasto mal digerito.

Per quattro atti.

Continuamente.

Sempre la Grande Innovazione ha portato i costumisti ad agghindare il Conte e i suoi seguaci come truppe naziste (senza simboli espliciti, però) e i gitani apparentemente come profughi ebrei con tanto di umiliazioni e maltrattamenti occasionali da parte delle truppe suddette. Manrico e Leonora indossavano indumenti informi e indefinibili che tutto facevano tranne delineare visivamente i caratteri propri dei personaggi, soprattutto per quello che riguarda il tenore che – giova ricordarlo – sarebbe un menestrello…

Ora sarebbe interessante sapere dal Grande Innovatore se anche il concetto di coerenza è passibile di rinnovamento in chiave moderna. Intendo dire che se il pubblico ascolta con le orecchie (e magari legge sul libretto) i personaggi cantare di spade, roghi, ceppi, principi, trovatori, gitani, armigeri e castelli vari, e poi vede con gli occhi pistole, fucili, profughi, truppe naziste che sparano dappertutto e cimiteri a non finire POTREBBE notare una lievissima incongruenza fra ciò che vede e ciò che ascolta. Roba da niente, continuate pure.

Non per niente un direttore del calibro di Muti ha deciso da tempo di dedicarsi solo alle opere in forma di concerto. Ma lui in fondo cosa ne capisce?

Il fondo è stato toccato sul finale del terzo atto, appena dopo la nota cabaletta “Di quella pira l’orrendo foco”. Secondo il libretto fra il terzo ed il quarto atto si verifica una battaglia fra i soldati del Conte di Luna e quelli del Conte di Urgel (di cui Manrico fa parte) che esita con la conquista di Castellor da parte dei primi e la cattura del Trovatore. Cosa abbiamo visto sul palco? Quattro soldati nazisti che si dispongono a plotone di esecuzione e sparano a bruciapelo contro quattro soldati dell’altra parte.
Sipario. Che sarebbe stato meglio lasciare chiuso…