Green like july “Build a fire”, recensione

likej.jpg

Beh…diciamo che ormai da anni ci è dato di sapere che La Tempesta Dischi raramente ha errato una produzione. Tarm, Sick Tamburo, Pan del diavolo, Moltheni, Zen circus sono (infatti) solo alcuni degli straordinari artisti che il nostro vitale ed italico underground ha fornito nell’ultimo lustro. Dunque, alla vista del diavoletto che corre, dico la verità, mi sono ritrovato ad iniziare l’ascolto in maniera serena e sicura di essere di fronte a qualcosa di interessante…e credo di non essermi sbagliato.

La nuova produzione made in Valvasone, porta il nome eclettico e visionario di Green like July, giovane ed “avvenente” band creata attorno a Andrea Poggio, Paolo Merlini, Roberto Paravia e Marco Verna. L’ensemble, cresciuta sotto le piccole ali della Candy Apple records, si offre agli ascoltatori attenti, come una band difficoltosa da etichettare e, a dire il vero, altrettanto complicata da recensire. Infatti, ascoltare questo nuovo Built a fire porta l’ignaro astante all’interno di vortici indie pop folk, confondendolo ed ammaliandolo al tempo stesso. Dico il vero dicendo di aver ascoltato il disco seidicosei volte di seguito (godendomelo appieno), senza riuscire a scrivere una parola. Non perché questo full lenght sia seminale, incommensurabile, insuperabile o perfetto, ma perché semplicemente appare estremamente godibile!

L’album, prodotto da A.J.Mogis, porta con sé l’anima d’oltreoceano, riuscendo ad affinare spezie vicine ai Grandaddy con momenti ed intuizioni liverpooliane, che stimolano la struttura narrativa dei nove racconti legati in una celata concept-ualità del cambiamento e della mutabilità, trait d’union che lega le liriche tra di loro.

A dare battesimo alle note dell’album sono gli accordi aperti di Moving the city, le cui mescolanze eightees e i suoi beat anni ’90 spianano la via all’attacco di Borrow time, il cui riff in Lou Reed style si unisce alla perfezione alle spezie Smith e ai modulati senza fiato. Attraverso la delicatezza espressiva di Onrdinary Fiend, la band ci invita poi all’interno di uno scarno e minimale approccio che matura nella perfezione di Godd luck bridge , traccia che, senza troppi dubbi, arriva a raggiunge l’apice espressivo. L’utilizzo degli archi, oltre ad esaltare la linea vocale, arriva a nobilitare la sezione ritmica tra dolci sapori folk indie e back voice funzionali ad una narrazione che si fa opaca in Tonight’s the night, per poi riprendere la giusta strada con venature Turin Breaks (Aghata of Sicily) e melanconie conclusive (Robert Marvin Calthorpe)

Un disco piacevole sin dal suo primo ascolto, impreziosito da alcuni intriganti e ben riusciti contributi esterni (Mike Mogis, Jake Bellows…), capaci di sottolineare una esposizione accurata e diretta.