Herba MAte “The jellyfish is dead and the hurricane is coming”, recensione

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L’erba mate è una pianta originaria dell’America Latina che, seguendo il medesimo procedimento del tè, viene essiccata, tagliuzzata e sminuzzata proprio come le strutture sonore del terzetto ravennate composto da Alessandro Trerè alla voce ed alla quattro corde, Ermes Piancastelli alla batteria e Andrea Bartotti alla chitarra.

La band, presente anche su Jamendo (http://www.jamendo.com/it/artist/367541/herba-mate)
offre desertiche aperture stoner, a tratti inquinate da spezie psichedeliche e per certi versi heavy, per un album che raccoglie basse strutture sonore attraverso la loro personalissima superficie arida. Proprio questo desolato habitat non solo traspare in maniera funzionale dalle immagini di cover art, ma si percepisce dalle strutture soniche tipiche di un genere in cui la vocalità sorge come strumentazione aggiuntiva. Non esiste un reale intento narrativo, quanto un più adeguato e spontaneo scopo emotivo, che trova il proprio apice attraverso un ascolto puro.

Nonostante gli inevitabili parallelismi con Kyuss e Fu Manchu, la band stordisce con le note, armate con il principio attivo che la loro musica contiene, pronti a ridefinire i contorni marmorei delle accordature ribassate e dai surreali istinti che, come il titolo del disco stesso ( The Jellyfish is dead and the hurricane is coming), accolgono l’uditore tra le crespe di un disco targato 2009.

L’interessante opener arriva a fondere sensazioni distese e diluite su di un sampler d’oltre cortina, in cui spazi balcanici si placano per raccontare piccoli movimenti realisti. Chiuso l’uscio di Machumba, il mondo rarefatto della band avanza nell’ipnotica Imargem, tracciato disciolto su di una partitura che rispecchia un modo diverso di analizzare i vortici psichedelici tipici della prima parte degli anni ’70. Infatti sonorità delicate e ridondanti si avvalgono di influssi che, pur essendo diversificati nel proprio sorgere, si cingono ad uno specifico leitmotiv,proprio come accade con Aragosta Vs Panther. Il titolo onirico spinge l’acceleratore su sentori Quotsa, rivisitati su scomode intuizioni discorsive, che non disdegnano reminiscenze post grunge. La traccia, di certo tra le più convincenti del full lenght esibisce i rochi vocalismi di Alessandro Trerè, bravo a sviluppare un’efficiente linea di contatto rispetto all’impalcatura sonora.

Gli echi ed i filtraggi vocali ci portano poi a rock’n’stoner di **, che potrebbe risultare familiare a chi ha visitato le lande del Zakk Wylde. Gli andamenti vocali risultano immediati e convincenti quanto l’idea fondante della composizione che, nonostante arie perfettibili, si mostrano all’ascoltatore in maniera avvolgente, tra guitar solo e distensivi incrementi sonori.

L’anima forgiata della band trova spunti non sempre efficaci, come dimostra il semplice riff di 1 to 65, in cui il trio ricerca (invano) sensazioni nuove, pur rimanendo legato ad una struttura che trova salvezza nel cuore della traccia, nel momento in cui si erge un più convincente groove. Il sentiero torna ad essere piacevolmente polveroso con Bugs, un orientaleggiante miraggio sonoro pronto a maturare in un evoluzione narrativa ben raccontata da metodici passaggi alla sei corde e da orpelli musicali che, al pari di ***, definiscono l’ardimento espressivo della band.

A chiudere il disco è infine Sputnik, inatteso atto di chiusura. Un accenno space noise ci invita all’ascolto del lungo brano, strutturato attorno a motivazioni eloquenti, che non tralasciano il coraggio di raccontare il proprio ego attraverso disturbanti vibrazioni, dalle quali nascono note ponderate e sussurrate di una chitarra docile e stranamente vicina a certe sonorità indie. La profusione si avvolge su di un tappeto acustico che disorienta l’ascoltatore (forse) pronto ad accogliere questo capitolo finale come una sorta di camera di decompressione, che ridefinisce ancora più chiaramente il vigore incisivo delle composizioni precedenti.