Lino CostaHypnotic Trio “Minianimali”, recensione

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Dalla neonata label 4miqe, auto-citata nella work art dell’album, arriva l’opera prima del Lino Costa Hypnotic Trio, combo virtuoso composto, oltreché dal jazzista palermitano, anche da Domenico Cacciatore al basso e Roberto Pistolesi alla batteria. I tre, assieme ad alcune guest star, danno vita ad un progetto sonoro che trova le radici nella penna del Maestro Costa, il quale, dopo molti anni, ha disposto di incidere le sue composizioni. Le dieci tracce del disco, infatti, vedono finalmente la luce dopo molte elucubrazioni, grazie all’habitat musicale che i musicisti sono riusciti a promettere prima e a realizzare poi. Un compendio apolide di mescolanze ardite, intersecazioni sperimentali, jazz classico, ricerca, swing e groove di immediato impatto.

Il disco, introdotto dalle parole di Olivia Sellerio, ci invita ad assistere ad una teatralizzante opera musicata, in cui la voce della 12 corde recita al centro del palcoscenico, in cui la penombra meditativa ci accompagna tra i diversificati cambi direzionali. Ad aprire il debut è Chimera, la cui struttura jazz introduce i primi sentori di mescolanze, subito ben definite dall’uso della Jew’s harp, metafora delle radici autoriali volute in Orange trip. Dalla piacevole traccia emergono inoltre sensazioni bossanova che, forse complice in tin whistle di Giampiero Risico, ci porta verso un mondo che lambisce il prog.

Anche se spesso il disco mostra di volersi adattare ad improvvisi cambi di direzione, esiste sin da subito la chiarezza espressiva di un percorso narrativo che, tra enclave chitarristiche e ben assestati crescendo alle pelli, ci porta alla destabilizzante introduzione di Duke my dog, un proto rock woodstockiano, tranciato, come in una sperimentale mini suite, da un interludio che si richiude ad anello tornando su di sé.

Se poi brani come The elephant jamp e l’orientaleggiante Oud appaiono meno convincenti, si torna ad un raffinato ragionare con le note estese e diluite di Insonnia, in cui la leggiadria tecnica della chitarra impatta alla perfezione con le basse note di Cacciatore. Proprio da qui si riparte per la splendida Two world dance, in cui tornano le tradizioni e la voglia di viaggiare oltre i confini che talvolta la musica si impone, grazie alla sua ritmica danzante ed equilibrata, appoggiata su di un tropicalismo batteristico, ben affiancato a pizzicati piacevolmente ridondanti.

A completare l’opera sono poi: in itinere l’amabile intarsio in sax tenore e le spezie swing e sul finire il dolce pianoforte della conclusiva Tangolino, melanconico passaggio finale, che nella sua creativa atmosfera felliniana porta a conclusione un insieme di idee incanalate in un disco ben strutturato. Un platter che non lascia il posto alla linearità, ma al contrario cerca e ricerca il proprio fulcro, senza troppa muscolarità o esasperazioni dei nuovi sguardi d’autore.