Lokua Kanza – Plus Vivant

copertina di Plus Vivant di Lokua Kanza

Il titolo del suo penultimo album era “nessuno sa dove sta andando”, che in lingala suonava Toyebi Te e che, appena quattro anni fa, aveva fatto gridare al piccolo capolavoro. Una manciata di canzoni corte due o tre minuti che lasciavano incantati per le atmosfere acustiche delicate, le melodie semplici e originali, i sottili intrecci ritmici e, soprattutto, il timbro magico della sua voce.

Lokua Kanza, nato in Congo nel 1958, incontrò la musica da piccolo, e a 22 anni entrò nel gruppo che accompagnava Abeti Masikini, una delle dive del soukous congolese. Ma il suo sogno era l’Europa, o meglio, come spesso accade ai giovani africani, era Parigi. Così la sua maturità artistica sbocciò sulle rive della Senna. Dopo le collaborazioni parigine con musicisti africani del calibro di Ray Lema, Papa Wemba, Youssou N’Dour e Manu Dibango, pubblicò finalmente il suo primo disco da solista, seguito da altri quattro, con i quali raggiunse la notorietà internazionale, vinse il prestigioso Kora Awards nel 1996 come migliore artista africano emergente e, soprattutto, conquistò una straordinaria autorevolezza in campo artistico.

Oggi oramai Lokua Kanza è un astro che brilla alto nel cielo, da annoverare tra la nuova generazione di musicisti, come Richard Bona, Geoffrey Oryema o lo stesso Youssou N’Dour, che ha innovato la musica africana grazie all’incontro con il jazz, il rock, o, come nel caso di Lokua, con la tradizione della musica francese d’autore.

Lokua Kanza è prima di tutto un fine compositore, capace di tirar fuori delicate canzoni che accennano, come con poche pennelate su una tela, un’atmosfera, un paesaggio, un sentimento. Egli è poi la sua voce, dal timbro al tempo stesso caldo ma anche metallico, sola o accompagnata dalle raffinate armonie ritmiche della sua chitarra. Infine è i suoi arrangiamenti sofisticati e rarefatti.

Anche da Plus Vivant, come dai dischi precedenti, la musica viene fuori sottovoce. Accanto a lui ci sono il coro di sua figlia Malaika e di Anne Papiri e numerosi altri musicisti, alcuni africani ed altri francesi, ma che appaiono sempre pochi alla volta. Tra loro troviamo Manu Katché alla batteria e Richard Bona al basso.

Eppure Plus Vivant non convince, non regge il paragone con Toyebi Te: sembra che l’Africa sia lontana e sfocata. Sarà perché le canzoni sono tutte in francese e il lingala è scomparso, sarà perché quasi tutti i testi dei brani sono scritti da autori europei. Sulla copertina di Toyebi Te lo si vedeva con i dreadlocks, sudato sotto il sole d’Africa, e sullo sfondo un villaggio di terra gialla e rossa. In Plus Vivant Lokua ha tagliato i capelli cortissimi, indossa i panni di un giovane intellettuale della moderna Europa interculturale e appare tra la nebbia appoggiato ad un muro di un grosso palazzo. Non so se sia voluto, ma il cambiamento è tutto lì, rappresentato in quelle due foto di copertina.

Intendiamoci, le canzoni sono piacevoli, la voce di Lokua è sempre splendida e la sua chitarra lo è altrettanto. Ma gli episodi realmente eccitanti sono pochi e durano in realtà poco più di dieci minuti. Laisse–moi le temps, Le clé des champs e Plus Vivant, il brano che da il titolo all’album, presente in due versioni, una cantata solo da Lokua e l’altra con Corneille, un musicista Rwandese che vive anch’egli in Francia. Un po’ poco, quasi una promessa non mantenuta.

In parte la svolta era già stata annunciata da un altro episodio fortemente intimista, che vede coinvolti, assieme a Lokua Kanza, anche Richard Bona e Gerald Toto. Si tratta di Toto Bona Lokua, uscito nel 2004 per No Format – Universal e passato quasi inosservato anche tra gli appassionati del genere, un po’ per difetti nella distribuzione, ma forse anche perché mostrava i segni della stessa debolezza strutturale di Plus vivant. Nonostante tutto, quel disco a suo modo aveva un senso. Le canzoni di Bona erano splendide, e Lokua Kanza vi firmava una piccola perla, Lisanga, che chiudeva l’album. Plus Vivant fa peggio, allontanandosi inesorabilmente dalle atmosfere calde, colorate e coinvolgenti che gli artisti d’Africa sono in grado di produrre meglio di chiunque altro.

Lokua risponde tranquillo a chi lo critica, senza giustificarsi né fare polemiche. Sembra che voglia esplorare nuovi territori e, grazie all’uso del francese, raggiungere un pubblico più vasto. Nessuna pressione dalle case discografiche, anche perché è lui (Yewo Music) che si autoproduce i dischi E allora forse sono soltanto io che non riesco ad apprezzare una trasformazione, che non riesco a vedere la maturazione di un artista che sta sciogliendo i legami con la sua terra soltanto per volare più alto. Forse sono semplicemente io che non capisco.