Mad Chickens- Kill, Hermit! – recensione cd e intervista

cover cd

Il grunge è morto. O almeno cosi si potrebbe legittimamente pensare. Con la tragica fine dei Nirvana e la rotta ormai definitivamente cambiata da parte di Pearl Jam e Soundgarden, (quel che resta degli) Alice in chains o delle stesse Hole, non rimangono che le ceneri di quel genere che, agli inizi degli anni 90, sconvolse il mondo del rock, con quel suo modo così lacerante e sincero di intendere il rock. Eppure, quei semi lanciati su terreni impervi e sassosi, all’epoca di cui sopra, sono stati raccolti e conservati gelosamente per essere nuovamente sotterrati e concimati da giovani delle generazioni successive.

Ed infatti, non appena metto su questo Kill, Hermit!, la mente non può che tornare rapidamente, mutatis mutandis, a quell’approccio direi quasi fisico nei confronti della musica e a quei suoni così diretti, mentre la voce mi ricorda marcatamente la vedova Kobain (o Mrs. Love, se preferite), tanto nel timbro quanto nelle modalità espressive, almeno quando iniziò avventura con la succitata “band del buco” (ascoltate l’urlo quasi angosciante di “Mr. Harvey” o delle due “Liar dog” che chiudono l’album e capirete cosa intendo). Il gruppo è formato da due ragazze e un ragazzo di Avezzano (in provincia de L’Aquila): Valeria Guagnozzi, Laura De Benedictis e Nicola Santucci (prodotte da Leandro Partenza), e si presenta sulla scia di band come i Verdena – giusto per restare in ambito italico – utilizzando con rinnovata passione quel linguaggio espressivo che ho tentato sinteticamente di descrivere qualche riga più su.

Al centro del suono ovviamente ci sono le chitarre (di tutti i tipi) che si intrecciano disegnando raramente melodie lineari, come nelle ballate malinconiche e dal gusto semi acustico (“Fell in love” e la splendida “The tinman”), mentre molto più spesso tendono ad un uso massiccio di effetti e riverberi (“Jack 69”, il cui sound ricorda in parte “You are”, da “Riot Act”, della band di Vedder & C. ma come se l’avessero concepita ai tempi di “Ten”). In altri episodi, infine, si lasciano andare totalmente alla rabbia, intraprendendo viaggi ascensionali o distorti e formando un muro del suono massiccio che non ha paura di osare (la cavalcata “Bed never bed”, che col pezzo di basso nel finale ha quel tocco in più che gli fa guadagnare un punto aggiuntivo).
“Broken” è una delle mie preferite: pezzo rock bello tirato, diretto e senza fronzoli con una coda quasi punk.
Per quanto riguarda i testi, tutti abbastanza molto diretti ed ermetici, più che di concetti parlerei del lessico: in parte crudo, con riferimenti al sangue o a Satana ed in parte anche passionale (That smile burnt my soul, she brought me in eden).
Tirando le somme, “Kil,l Hermit!” è un sano ritorno a quel rock sghembo e disperato che tanto ci ha appassionato in passato e che, pur non potendo più rivivere, oggettivamente, i fasti di un tempo è sempre ben accetto quando viene proposto in modo sincero e tecnicamente ben suonato.
Alle Mad Chickens e al loro batterista abbiamo proposto un’intervsta per capire un po’ di più la loro storia e la loro “scelta di campo”.

Ascoltando il vostro disco, così tutto di un fiato, devo ammettere che è stato bello poter rivivere quella passione grunge che sinceramente mi mancava. È sempre stato questo il vostro riferimento o siete arrivate a queste sonorità dopo un percorso artistico diverso?

Sì, come punto di riferimento abbiamo sempre avuto band della scena anni ’90, anche se comunque ascoltiamo musica di altro genere che spazia dal post punk al brit pop. Però nonostante questo, abbiamo cercato sempre di sperimentare e provare cose nuove. Infatti l’EP “Goodbye, Butterfly” uscito nel 2009 è molto diverso dall’album “Kill, Hermit!” uscito nel 2012. In questo album abbiamo giocato molto con i suoni. Infatti ad esempio, per la batteria, ci siamo fatti ispirare dall’effettistica matta dei Joy Division. Poi, a differenza dell’EP, ci siamo divertiti molto con le voci: abbiamo aggiunto, infatti, la seconda voce e ce la siamo spassata tra delay e echi fantasmagorici! C’è anche qualche strumento in più, come la tastiera, la chitarra acustica e il clarinetto.
C’è da dire che questo eremita l’abbiamo coccolato assai: è stato registrato e mixato in analogico nello studio Wax di Roma e masterizzato sempre in analogico all’Alphadept di Bologna.


Chi di voi scrive i testi e qual è la canzone che vorreste, magari, spiegare meglio al pubblico?

I testi li scrive Valeria, la cantante/chitarrista. In realtà ogni volta che ci viene posta questa domanda, facciamo sempre i timidoni ritrosoni, ma per voi faremo un’eccezione 😛 “Fell in love” è la sesta traccia dell’album, acustica e vittoriana. Rappresenta una svolta, sonica e vitale. Non a caso è il crocevia del disco. È una ballata distonica che pone tasselli importanti sulle belle cose che non vanno mai dimenticate e che ci accompagnano anche nelle peggiori avversità. Oltretutto, piccola chicca: è stato l’ultimo pezzo preparato prima di registrare! Ne mancava uno solo e in una notte di pioggia di rane è venuto fuori come un caffè dopo una sbronza.


Il panorama indie italiano, che sul nostro sito è sempre promosso col dovuto rispetto e con il giusto spazio, sembra ancora molto vitale. Trovate che le nuove tecnologie (mp3, dowload etc) o anche la stessa rete, agevolino i gruppi emergenti come voi o sia piuttosto il contrario?

Non ci sentiamo parte di questo panorama indie. Ma al di là di tutto, sicuramente se ben usata la tecnologia aiuta molto le band emergenti come noi a farsi conoscere di più. Anche se siamo della vecchia guardia: Odiamo gli abominevoli mp3 delle nevi! Comprate i dischi, e comprate pure il nostro!

Avete mai fatto un tour, o anche solo un mini tour, in giro per l’Italia? E se sì, raccontateci sinteticamente com’è andata.

Nell’ultimo anno abbiamo suonato parecchio, inoltre abbiamo condiviso il palco con molte band davvero fighe! Ci siamo divertiti un sacco e ne abbiamo passate di tutti i colori.
Un episodio divertente riguarda un live a Frosinone alla Cantina Mediterraneo. A 2 km scarsi dal locale, attraversiamo in macchina un ponte, ma la macchina faceva uno strano rumore. Nel punto più basso, ci accorgiamo di aver bucato sonoramente. Accostiamo e ci facciamo una bella risata. Mentre Nicola, il batterista, smanettava con cric e gommisti chiusi di sabato sera, abbiamo avuto la brillante idea di tirar fuori chitarre e cembali e abbiamo improvvisato un “Live sottalponte”, destando curiosità e apprezzamenti dai passanti. Alla fine, tutto è bene quel che finisce bene e siamo arrivati con un’ora di ritardo per iniziare il check. La baldoria e l’alcool a fiumi ci hanno poi consolati del tutto!