Madre de Dios “Madre de Dios”, recensione

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Anche l’occhio vuole la sua parte… e una cover art come quella di Madre di Dios, senza dubbio, esaudisce i criteri estetici, non solo grazie ad un packaging elegante ed opaco, ma anche per merito di un arte grafica curata ed originale, in grado di mescolare l’approccio popular con l’iconografia tipica del dia de los muertos.

La band, promossa dalla Red Cat Promotion, dopo una serie di destabilizzanti cambi della line up, giunge noi con un debut album intenso e convincente, che mostra non solo stilemi maturati e mutuati dal passato professionale dei singoli musicisti, ma anche e soprattutto ancorati ad un orientamento marcatamente rock- stoner, qui mitigato da striature hard rock e scacchi grunge.

A dare il via alle undici tracce è l’intenso riff di The evil guide, intensa overture abile nel mescolare l’hard rock con le nuove distorsioni heavy, senza dimenticare spaziature anni ’90, diluizioni e riverberi. Da questa accorta e riuscita mescolanza emerge sin dalle prime battute la voce graffiata ed espressiva di Frank Bizzare, il cui approccio intenso e trainante ci porta sulle note di High living in the sunshine. L’approccio isterico dei piatti, la voce filtrata e il riff classico ci trascinano dapprima sulle soglie dello stoner, per poi lasciare spazio vitale ai rimandi eightees, in cui back voice ed auree corali ci catapultano ai limiti del metal.

La band appare animale da palcoscenico con le sue reminiscenze Iommi ( Flamingos!), i suoi sapori deja ecù ( Shake it baby) e le sue spezie doomatiche ( Merry go round song), pronte a rivitalizzare le matrici classiche di Ordinary man e i sapori Soundgraden di Orbit.
Ma i Madre de dios non si soffermano sui propri allori, viaggiano con le loro partiture attraverso il viatico tra fedeltà e sconsideratezza in Mater Skelter (coverizzazione della “confusività” beatlesiana) e la straordinaria Mad city, di certo tra i brani migliori del full lenght. Infatti, abbandonate le facili armonie, il quartetto si mostra attraverso strutture disarmoniche, tra sguardi improvvisi, volti su di un orizzonte solo percepito mediante una barriera ritmica pronta ad aprire a contesti inusuali e a ridondanze ipnotiche, che pur rimanendo orfane della vocalità, offre un anthem, onirico e spigoloso.

Un disco dunque da comprare, possedere ed osservare.