Olga Bell “Krai”, recensione

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Nata all’ombra della Piazza Rossa, cresciuta tra le desertiche lande dell’Alaska ed armata di un fascino estetico da Nouvelle Vague: ecco a voi Olga Bell; poliedrica artista di stanza nella Brooklyn fervente e vitale.

Oggi, dopo le esperienze legate a Nothankyou e Dirty Projectors, grazie alla One Little Indian (e alla Ja.La. Media Activities) arriva a noi un curioso debut (Krai) cantato esclusivamente (udite!udite!) in russo. Nove tracce che appaiono come una sorta di collana episodica di brani trip-folk, in cui la tradizione ed il modernismo si uniscono in una miscela non certo diretta, ma alquanto stimolante.

Il disco prende spunto dalla concettualità geografica dei Krais Russi, indicati nel rosso booklet attraverso una cartina disegnata a dorate tonalità, dal cui interno fuoriescono nove tracce per nove “frontiere” austere e ben definite da suoni scarni, sintetici e minimali, ma al contempo non troppo refrattari ad aperture più easy.
Una surreale ed avvincente contaminazione.

I testi, forniti di traduzione a fronte, sembrano voler ridurre la distanza divergente tra sonorità oscure e sintesi cripto-folk, qui rivisitate, non solo attraverso rimandi realmente “tradizional”, ma anche mediante suoni inattesi, proprio come le note del vibrafono e del glockenspiel.

Inoltrandoci all’interno dell’elegante e sobrio digipack a doppia ala, ci si ritrova immediatamente all’interno di effluvi sonori, in cui alte note aprono la strada ai vocalizzi spigolosi di Olga che, per certi versi, sembrano riportare alla mente le atmosfere regalate a Kusturica da Goran Bregovic. Un sentiero aperto dal drum kit di Gunnar Olsen, abile a ristabilire spazi evocativi, in cui l’ascoltatore si ritrova a gestire movimenti inusuali. La forma canzone, almeno inizialmente, non sembra essere fulcro dell’urgenza narrativa, bensì una concessione saltuaria che si riflette in emozionalità meno rigide, proprio come accade in Perm Krai, il cui impatto sonico, edulcorato da controcanti e andamenti più aperti, si mostra nel suo drumming accorto come anima reale del disco. Interessante approccio sembra essere poi quello espresso dai giochi tribali di Promorsky Krai, tramite la quale delicate ali free fondano le proprie intuizioni intercalando accenni di post punk, rumorismo e tradition folk, sino ad emergere verso gli accordi insofferenti di Zabaykalsky Krai, composizione minimale e a tratti claustrofobica, tessuta tra fili oscuri e freddezza evocativa.

Un disco senza dubbio a cui dar credito, attraverso un ascolto esclusivo e attentivo. Dunque, spegnete il mondo attorno a voi e fatevi trasportare in questo lungo viaggio, tra le steppe desolate di una realtà che ormai non c’è più.