Paper Gods – Duran Duran – recensione cd

Cover cd

Premessa: nella discografia dei Duran Duran non troverete mai un album uguale all’altro, statene certi.
Sono stati il simbolo degli anni 80, bistrattati da molti per la loro sagace capacità di utilizzare a proprio favore l’immagine di fighetti alla moda, anche ora che non sono più dei giovanotti, ma nessuno potrà negare che hanno sempre fatto a modo loro e sperimentato. A volte hanno rischiato di prendere qualche abbaglio, ma sempre e comunque seguendo il loro istinto. Personalmente li seguo dall’inizio della loro carriera e in verità scarterei solo il loro disco “Medazzaland”, forse troppo sperimentale e sghembo (ma 4 pezzi buoni li aveva anche lui). Per il resto, almeno la sufficienza l’hanno regolarmente raggiunta (“Liberty”, “Red Carpet Massacre”), toccando spesso punte di eccellenza (“Notorius”, “The Wedding album”, “Astronaut” e il penultimo, “All you need is now”), dopo aver già raggiunto il top con i primi due dischi (“Duran Duran” e soprattutto la perla irripetibile “Rio”).

Detto ciò, i Durans pubblicano in questi primi giorni di settembre “Paper Gods”, che detto per inciso è veramente un ottimo disco, in cui stranamente il ruolo del produttore Marc Ronson – che aveva dato prova del suo talento nel succitato predecessore – è stato relegato a due soli brani (peccato!). Stavolta il ruolo di principale regista alla consolle è stato affidato a Mr. Hudson – che non a caso è di Birmingham come Simon Le Bon e soci – al quale si è aggiunta, qua e là, la mano del solito Nile Rodgers che ha fornito un sostanziale contributo per confezionare il singolo vintage style (tipo Daft Punk) “Pressure off”, che ha impazzato nelle radio per tutta l’estate e sul quale, perciò, non mi soffermerò ulteriormente.

La mano di Hudson, a mio avviso, ha dato un gusto dance molto più marcato al disco, consegnando letteralmente al biondo Nick Rhodes le redini della carrozza, ancora di più di quanto non sia avvenuto in passato. I suoi sintetizzatori dominano “Face for today” e “Sunset garage” che segnalo serenamente come brani più belli in assoluto. La voce di Le Bon è sempre stupenda e nell’immancabile lentone da atmosfera “What are the chances?” trova nel mixaggio il ruolo che le spetta di diritto in un pezzo dei Duran così come in “The universe alone”. Da sottolineare, in entrambe le canzoni, la chitarra dell’ex Red Hot Chili Peppers John Frusciante il quale ha prestato il suo prezioso plettro anche nella radiofonica “Butterfly girl” (con la pantera nera Anna Ross, loro corista storica, a duettare con Simon), alla quale regala un’anima rock che è sempre stato nel loro dna (belli i tempi in cui Andy Taylor aveva un posto assicurato nella line up).

Tirando le somme questi 4 dei di carta non verranno bruciati neanche questa volta dal passare del tempo, perché hanno dimostrato, nonostante l’età, di saper produrre ancora una volta un disco artisticamente interessante per color che amano il pop. Riguardo a tutti gli altri, sono certo che molti riusciranno a parlarne male senza aver ascoltato neanche una nota. È una storia già sentita.
PS: come spesso mi capita, voglio suggerire agli interessati di acquistare la Deluxe edition perché, delle 3 bonus tracks, le ultime due (“Valentine stones” e “Northern lights”) potrebbero ambire a potenziali singoli, quindi perderli sarebbe un peccato, e la prima “Planet roaring” non è affatto da scartare.