Pearl Jam

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Una serie di immagini, apparentemente senza significato metaforico, disposte in rettangoli bianchi capeggiano sulla copertina che racchiude l’opera più criticata di Vedder e soci. Inutile sembra essere la ricerca di un nesso logico. Questa volta siamo di fronte ad una voluta casualità; non esiste chiave di lettura, come esplicita il titolo del quarto disco dei Pearl Jam.
“No code” è senza dubbio un album tanto bello quanto sorprendente, ricco di originalità, probabilmente nata dai progetti paralleli che i membri della band hanno coltivato in questo periodo. Una serie di progetti satellite, che hanno aiutato il gruppo di Seattle nella loro crescita artistica. Già da un primo ascolto appare chiaro un abbandono dei toni cupi e oscuri che avvolgevano il precedente “Vitalogy” in cui testi e suoni si manifestavano claustrofobici e ridondanti. Con “No code” tornano arrangiamenti di maggior respiro sotto la giuda ormai tradizionale di Brendan O’Brian.
Ad aprire il disco è la quieta “Sometimes”, che con il suo arpeggio delicato scandisce un sofferente dialogo con Dio, nel tentativo di farsi ascoltare, come un uomo tra tanti e nell’intento di declamare la propria vulnerabilità così palesemente umana. I ritmi pacati crescono poi vorticosamente con “Hail Hail”, brano in stile “Ten”, un rock tirato che nasconde in sé una vena sentimentale che, nonostante le incertezze espresse, considera fortunati solo coloro che sono colpiti dalle frecce di cupido. Con il singolo “Who you are” ritorna invece una tematica pseudo religiosa; il suono del sitar costruisce un atmosfera orientaleggiante che accompagna interrogativi cosmici, relativi al più che antico filosofeggiare sulla nostra natura, costantemente guidata dal vento della vita. Tra le migliori canzoni del nuovo album sono senza dubbio da annoverare “Smile “ e “Off he goes”. La prima track viene introdotta da un un replicato riff che esplode in un finale liberatorio, mentre una serie di ripetizioni lessicali creano nostalgica preoccupazione nella paura di perdere i ricordi di un amore smarrito. “Off he goes” è invece un piccolo capolavoro, una delle più magiche ballate mai composte da Vedder. Un suono semi-acustico che vuole essere meditativo ed ammaliante all’unisono. La voce del vocalist ancora una volta si dimostra poliedrica e perfetta anche in basse e leggiadre tonalità come quelle proposte da questa splendida canzone. La storia narrata è quella di un uomo inquieto in continuo movimento, sempre in costante ricerca di qualcosa o qualcuno, la cui faccia sembra sempre tirata dal vento proprio come se guidasse una motocicletta. Il viaggio prosegue attraverso le grezze e dure note di ”Habit”, che riprende, come annuncia il titolo stesso, la delicata tematica della droga, e “Red Mosquito”, musicalmente ineccepibile. Una chitarra distorta che richiama il sound anni settanta si alterna all’incantevole voce di Vedder che sofferente e delicata dondola tra le note che finiscono per esulare dal pacato ottimismo che pervade l’album.
Tutta la rabbia sopita, esce improvvisamnete dalla voce del frontman in “Lukin” riportandoci indietro alla radicale collera dell’album d’esordio. L’album si chiude con tre brani sorprendenti. Il primo è l’easy listening di “Mankind” cantata dal chitarrista Gossard, che stupisce per i suoni sempliciotti del brit-pop. “I’m open” invece spiazza l’ascoltatore per la sua voluta ricerca di suoni sperimentali e intellettualoidi che accompagnano la voce narrante di Vedder. Il brano conclusivo invede torna a buoni livelli di qualità. Un brano denso di speranza, una sorta di “Lullaby” degregoriana, scritta per il figlio di Jack Irons.
Appare quindi palese come ancora una volta i Pearl jam, tralasciando solo qualche sfumatura eccessivamente provocatoria, siano riusciti ancora una volta a produrre un disco a otto carati.