Perro Malo “Useless”, recensione

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Useless to say you gotta worl untill you die

Si chiamano Perro malo ed arrivano dalla Romagna armati di Heavy-post-dark al servizio di Useless, interessante e ben costruito extended played. La rock band, formata da cinque musicisti faentini, sembra voler vivere delle emozioni legate alla concettualità più rotonda del rock, innestata tra aforismi e slogan tipici del loro songwriting.
Il disco, promosso dalla Go Down records, pur sbirciando il mondo stoner, si bilancia su solide strutture, che sembrano rimandare al sapore garage anni novanta, tra spiriti post grunge ed attitudini hardcore, ben evidenziate dall’ottimo lavoro di post produzione, abile nel definire un suono crudo e diretto.

Il nuovo EP si apre con le chitarre in battere di Something wrong, la cui aurea post Seattleiana ci restituiscono l’interessante voce del frontman, sorretta da funzionali back voice che, tra stop and go, spazi e silenzi inattesi, donano risalto alla batteria volutamente mai troppo virtuosa, ma piuttosto battente e presente. La Traccia subisce poi percettibili mutamenti nel suo evolversi verso il guitar solo, mentre il falso finale ci rimanda alla linea vocale della follia esecutiva di Tonylamuerte.

Se poi la rivisitazione di Vicious di Lou reed convince sino ad un certo punto, è con l’aria anni’90 di Useless che l’ascoltatore avrà modo di essere conquistato dalla band, proprio grazie ai buoni giochi in balance e a curiose ridondanze dark, rese reali grazie alle calde note del basso. Echi sonori di buon impatto arrivano, inoltre, a deformare un enclave sonora che ritrova nel classic rock il risvolto vincente.
A completare l’opera seconda del quintetto sono le spezie stoner di Somenhin’doesn’t work diffuse sulle sensazioni rollingstoniane e sulla deformazione sonora di London, sostenuto rock il cui drum set purpleiano ricade su strutture solide. Un insieme di costruzioni chitarristiche dirette e prive di fronzoli che definiscono, se ancora ce ne fosse bisogno, un rock dalle aperture armonico-alternative.

Un platter che, come il monicker scelto dalla band, metaforizza una mescolanza di intenti diretti ed accoglienti, che posso però nascondere insidie ed improvvisi cambi di direzione.