Roger Waters

Locandina

Sono passati molti anni da quando i Pink Floyd sbarcarono tra le gondole di Venezia, in una piazza San Marco vestita a festa, per uno dei più avvincenti concerti di sempre. Da allora per una ragione o per l’altra non sono mai riuscito a far incrociare la mia strada con quella di Waters, sino allo scorso 23 aprile.

Per qualche istante ho pensato di non scrivere questa recensione, spinto dal fatto che lo show al quale ho assistito è per bellezza ed emozionalità, assolutamente impossibile da descrivere attraverso le parole, o meglio…attraverso le mie parole. Dopo aver elucubrato a lungo, mi sono deciso a scrivere di quella magica sera, in omaggio a tutti coloro che, preventivamente, hanno voluto vedere questa tournée come un mero lucre tour, e a tutti coloro che sono convinti che partecipare a questi eventi sia un semplice sublimare antiche nostalgie.

Solitamente quando mi presento ad un concerto per la recensione, porto con me due o tre fogli bianchi e la mia penna fidata, per potermi appuntare sensazioni e pensieri, nel tentativo di raccontare il più fedelmente possibile il live. Perdonatami, ma in questo caso, dopo i primi dieci minuti ho accartocciato il foglio e riposto la penna. Le emozioni rimaste dentro di me ancora oggi sono più forti di quelle che sarebbero state scritte sulla carta. Di fronte a me un groviglio di impressionati pensieri fatti di luci, un sonoro perfetto e sorprese a non finire.

Lo show raccoglie la genialità di Roger Waters attraverso muri di ieri e lati oscuri di oggi. L’organizzazione voluta dall’ex Floyd si dipana attraverso due atti; il primo nettamente più convincente, riesce senza difficoltà alcuna a mandare in delirio gli accalorati presenti con “In the flesh?” e la fedele versione di “Mother”, dolce estratto di “The wall”. Le immagini scorrono sul maxi schermo dietro le spalle dei musicisti, nel tentativo riuscito di complementare i suoni con immagini, che alternano momenti psichedelici a stranite sensazioni ipnagogiche, e iconografia Pinkfloydiana a gustose fotografie del passato. “Have a cigar “ e “Set the control for the heart of the sun” scandiscono il tempo, mentre il tuonante datch forum esplode sulle immagini del compianto Syd Barrett, che anticipa “Shine on you crazy diamond”.

Il pathos rimane alto, quasi all’improvviso un fruscio, una radio, la mente corre veloce verso uno dei migliori masterpiece del repertorio: “Wish you were here”. Mi rendo conto che la strepitosa forma di Waters rende alcune canzoni senza tempo, che mai ci si stanca di ascoltare. Le dolci note salgono verso il cielo, ognuno probabilmente sta pensando ad una persona speciale che vorrebbe accanto; qualcuno telefona, qualcuno registra, altri cercano di immortalare il momento che fino a 10 anni addietro sarebbe stato accompagnato da una selva di accendini ondulanti e che oggi, un poco tristemente vive della sintetica luce dei telefonini più tecnologici.

Lo spettacolo viaggia su veloci binari, toccando le corde emotive di “Living Beirut”, raccontata dai fumetti esplicativi e “The post war dream”, estratta da uno dei più sottovalutati album dei Pink Floyd, che con il loro “The final Cut” non hanno mai ricevuto da stampa e fans il giusto criticismo.

Tra coriandoli e maiali volanti si arriva alla seconda trance del concerto, quella dedicata a “Dark side of the moon”, introdotta dal battito cardiaco di “Speak to me”. Il lato b del live, pur rimanedo su altissimi livelli, fa trapelare piccole falle dovute alla bizzarra decisione di eseguire la tracklist esattamente come appariva nel disco del 1973, togliendo verve al susseguirsi dei brani. Se “Time” e “Money”, risultano troppo semplici nel loro arrangiamento, di tutt’altra fattura sembra essere “Us and them”, in una long version memorabile, proprio come i giochi di luci che valgono da soli il prezzo di un biglietto tutt’altro che popolare.

Il concerto prosegue superando le due ore di musica. Si approda al terzo atto in cui il bis tradizionale ospita inevitabilmente “Another brick in the wall, part 2”, durante la quale gli spettatori ondeggiano gridando i loro canti, per poi addolcirsi con “Vera” ed il gran finale affidato alla delicata “Confotably numb” che rende più dolce il lungo viaggio verso casa.