Sostacovitch suona Sostakovitch

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Ascoltare le opere dei grandi compositori eseguite dagli stessi è un’esperienza che travalica la semplice curiosità, e anzi dovrebbe ritenersi necessaria. Non solo per capire meglio quelle opere (anche perché non è detto che l’autore sia il miglior interprete della sua creazione); è utile, utilissimo, per lo studente, per il professionista, per lo storico della musica e, in certa misura, per lo storico tout court.

Poiché quanto vien fuori da, poniamo, Rachmaninov eseguito da Rachmaninov, Busoni da Busoni o Stravinsky da Stravinsky è una preziosissima testimonianza non solo di una modalità interpretativa, ma anche di un particolare modo di sentire, una particolare visione del mondo e degli uomini che oggi è radicalmente mutata, e dunque perduta.

Attraverso quelle (spesso rudimentali) incisioni noi possiamo intravedere concezioni e sensibilità che esulano dall’ambito musicale.
Anche per questa ragione è straordinaria la versione che Šostakovič in persona ci offre delle proprie pagine. Vi si sente un’inquietudine che non è solo soggettiva, particolare, ma collettiva, universale: quella degli intellettuali nel regime sovietico, ma anche quella dei personaggi di Joyce, Pirandello o Beckett. Di quella inquietudine – personale e non – Šostakovič pianista e André Cluytens direttore si fanno naturaliter portavoce. Ed ecco quindi che il tipico connubio di tante opere del compositore – angoscia irrisolvibile e gioco deformato, ilare decomposizione cubista – viene reso con molta eloquenza.

Il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op.35 nella più recente versione di Riccardo Chailly, per esempio (con Ronald Brautigam al pianoforte e Peter Masseurs alla tromba, con il Royal Concertgebouw, cd Decca), è splendido, ineccepibile, perfetto: ma è la rappresentazione di quell’inquietudine: in questo disco c’è quell’inquietudine. Lo si vede bene nei movimenti estremi dei Concerti (e nelle Danze Fantastiche), in cui un tensivo potenziale energetico sottende l’intero percorso; e ancora più febbrile, “elettrico”, è il Concerto per pianoforte op.102.

Basterà confrontarlo con la lettura di Bernstein (nella duplice veste di pianista e direttore) – molto meno angolosa, più propensa alla levità e al lirismo melanconico – per cogliere la differenza.
Del resto, il panismo stesso di Šostakovič traduce logicamente tale portato: nei due Concerti è palese quanto egli abbia volontà di suonare in maniera molto diversa dal tipico panismo ottocentesco, il suo guarda più a Prokov’ev o all’ultimo Debussy, si presenta come oggettivo, squisitamente novecentesco; pur senza cadere mai in un freddo meccanicismo, evita qualsiasi enfatizzazione patetica, qualsiasi gestualità tardoromantica (sarebbe facilissimo nell’Andante del secondo Concerto). In linea peraltro con la tromba (nel primo) e la compagine orchestrale, cogente e non figura antagonistica del solista, con il quale ha una sintonia perfetta.

Ascoltato questo panismo asciutto, talora perfino asettico, si rimane sorpresi quando si arriva alla delezione dei Preludi e Fughe op.87, che completano il disco: si passa dalle atmosfere franckiane dei Preludi alle sonorità spesso organistiche delle Fughe.

E’ ancora una volta innanzitutto il tipo di approccio allo strumento a veicolare un indirizzo interpretativo: idealmente protesi, come si sa, verso i celeberrimi antecedenti bachiani, sono votati alla pura spiritualità, alla pura trascendenza.

Comunque lo si voglia accepire, questo documento è imperdibile.