The Diving Board – Elton John – recensione

cover cd

Ogni tanto le cover dei dischi sono insignificanti. Altre volte, invece, sembrano voler raccontare una storia, lasciando magari al pubblico il gusto d interpretarla. È certamente il caso di questo “trampolino per tuffi” di Sir. Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, giunto al suo – udite udite! – trentesimo disco di inediti (se si escludono “Duets” del ‘93 ed il penultimo “Union”, con Leon Russel), sulla cui copertina c’è l’immagine suggestiva di un uomo, che sta per tuffarsi nel vuoto.

Mi piace immaginare che si tratti dello stesso artista inglese che, arrivato al culmine della sua carriera, a 66 anni compiuti d’età, sta per fare una scelta piuttosto singolare, anche se già intrapresa da altri colleghi: buttarsi a capofitto nel proprio passato per riaffrontare di nuovo tutto, con le stesse armi. Sì, le armi usate in “Diving board” sono proprio quelle di una volta che gli hanno regalato fama e successo, basate sull’essenzialità degli arrangiamenti, la semplicità delle melodie e la totale fiducia nei testi del più che fidato Bernie Taupin. Un mix “micidiale” che ha sempre funzionato e che, a scanso di equivoci, anche sta volta possiamo subito riaffermare come pienamente vincente.

Lo si capisce già dalle prime note di una nostalgica e malinconica “Oceans away” nella quale il suo piano lo accompagna, in solitario, per tutta la durata del brano. Da brividi. Il produttore T-bone Burnette, che Elton ha rivoluto ancora una volta al suo fianco dopo il succitato “Union”, entra in gioco con i suoi tocchi inconfondibili dalla seconda traccia “Oscar Wilde gets out”, accattivante midtempo fatta di archi intensi e pennellati che ci manda indietro ai tempi del suo album omonimo e di “Tumblweed connection”, entrambi del 1970. Proprio come la deliziosa “A Town called Jubilee”, con quel coro in stile gospel capace di renderla così piacevolmente vintage da volerla riascoltare subito per poter godere di qualche sfumatura perduta a un primo ascolto distratto. Il tutto poi suona così americano da non crederci. Non c’è sosta per nessuno perché subito una “The ballad of blind Tom” ti afferra per la mano con quel suo ritmo irresistibile fino a farti arenare nelle sabbie mobili di in una triste e stripped down ballad, “My quicksand”, con quel bellissimo finale jazzato.

Il cantante d’oltre manica non disdegna poi un breve recall al meglio della sua storia scritta negli anni ‘80 con “Can’t stay alone tonight” che volutamente sembra accennare a quella splendida pop song che fu “I guess that’s why they call it the blues“, ma senza rischiare la mediocrità della palese autocitazione. Radiofonica e orecchiabile.
Potrebbe bastare già, ma, pensate un po’, le due perle del disco “Voyeur” e il singolo apripista “Home again” non sono ancora arrivate. Entrambe lasciano il segno e ti fanno realizzare che questa volta ha veramente voluto strafare, sfiorando l’inatteso “disco perfetto”, per la gioia dei suoi milioni di fan. Tutto quello che segue fino alla fine dell’album, che per sole ragioni di sintesi evito di descrivere, è qualitativamente altrettanto degno di quanto raccontato fino ad ora.

A qusto punto, non mi rimane oramai che spingere giù anche voi da quel trampolino, facendovi vivere un’esperienza che non tarderete a voler ripetere quanto prima, ne sono praticamente certo. Bentornato capitano Elton.