The Lounge Lizards – recensione dell’album The Lounge Lizards

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Quando un album risulta difficile da etichettare, nel 99% dei casi abbiamo tra le mani qualcosa di interessante. Se poi dentro ci sono musicisti di diversa estrazione, in passato già protagonisti di scene musicali di rottura, allora l’interesse cresce a livelli atomici. I Lounge Lizards fanno proprio parte di questa situazione perché sono l’unione di cinque musicisti provenienti dal post-punk, dalla no-wave, dal jazz sperimentale e dal rock alternativo per formare un ensemble dallo spirito libero e progressivo, ispirati dalle loro diverse formazioni culturali per la composizione di pezzi strumentali di grande classe.

Creati da John Lurie, poliedrico artista newyorkese che oltre ad essere un ottimo sassofonista è anche scrittore ed attore (parecchie presenze nei film di Jim Jarmusch), i Lounge Lizards dei primi anni 80 erano formati anche dal fratello Evan alle tastiere, da Steve Piccolo al basso, da Anton Fier (ex dei Feelies) alla batteria e dal brasiliano Arto Lindsay alla chitarra. Il contributo di quest’ultimo, protagonista della scena no-wave in precedenza e che in futuro diventerà uno dei musicisti più importanti della scena rock-pop brasiliana, è certamente fondamentale per i cambi di ritmo e per il groove in un disco improntato su una base jazz apparentemente classico. Apparentemente appunto, perché se il sax di John Lurie domina la scena in lungo ed in largo, il suo approccio non è sicuramente scontato. Perché se con un occhio si guarda alla tradizione con grande rispetto, come nelle cover “Well You Needn’t” ed “Epistrophy” di Thelonious Monk, altrove si spazia dal funk progressivo di “Do The Wrong Thing” alle derive free di “Au Contraire Arto” e “Demented”, passando per le spaziature ed i silenzi atonali di “Ballad”. Nell’insieme, la presenza alla batteria di Anton Fier è strumentale ad un approccio rock alla totalità dei pezzi, mai ancorati su un solo tono ma sempre molto corali e con un idea di improvvisazione sempre pronta. Basti ascoltare “Wangling”, in cui il classico post-bop è trascinato verso l’estremo fino a diventare fantastico rumore.

Complesso e per nulla semplice, questo album d’esordio dei Lounge Lizards risulta però piacevolissimo da ascoltare, seppur con la dovuta attenzione e con l’orecchio pronto a recepire qualcosa di diverso dal solito. Affascina per il suo equilibrio tra stile e sfrontatezza, tra eleganza e animo prettamente metropolitano. Saprà conquistare l’appassionato di jazz così come il punk-rocker più sofisticato, senza escludere tutto ciò che passa in mezzo ai due. Nella carriera del gruppo, che ha cambiato spesso formazione con una tendenza continua all’ampliamento dei musicisti, esistono altre testimonianze importanti, su tutte i due album del periodo in cui alla chitarra era subentrato il geniale Marc Ribot, “No Pain For Cakes” ed ancor di più “Voice Of Chunk”, purtroppo fuori catalogo da sempre. Un motivo in più per andarli a scoprire.