The Rolling Stones – Sticky Fingers (1971)

Dopo quasi tre anni da quando ci siamo imbarcati in questa avventura nel recensire i migliori dischi della storia, svariando sia in ordine temporale che fra i vari stili musicali, non avevamo (colpevolmente) ancora recensito nessun disco di una delle band più importanti di sempre. I Rolling Stones avevano iniziato la loro carriera discografica nel 1964 con il disco omonimo e la loro musica fu da subito molto influenzata dal blues, folk e country. Se coi successivi album questo legame “americano” si era man mano affievolito, il “primo amore” tornò prepotentemente nel 1968 con Beggers Banquet e il seguente Let it Bleed, considerati da pubblico e critica come l’inizio della loro Golden Age.

Il capolavoro assoluto arrivò però nel 1971 con la pubblicazione di Sticky Fingers, il primo con la loro etichetta, nonché con il famoso logo con la lingua, creato da John Pasche. Di questo disco tutto è ormai leggendario, a cominciare dalla copertina che fu ideata da Andy Wharol e che nella versione originale su vinile presentava una vera e propria cerniera lampo. Per chi fosse interessato a maggiori dettagli, nel dvd live pubblicato nel 2017 c’è perfino una recente intervista al modello Joe Dallessandro che prestò il proprio prominente “pacco in denim” piazzato sulla cover.

Venendo più propriamente alla musica, gli Stones aggiunsero ai già succitati generi musicali (il blues di “You gotta move” l’esempio più evidente) anche una parziale influenza del soul e del funky rispettivamente dai vari Otis Redding e James Brown, introducendo per la prima volta i fiati (il sax di Bobby Keys e la tromba di Jim Price nella conclusiva ballata “Moonligh Mile”). Ma al di là degli arrangiamenti quello che veramente funziona in Sticky Fingers sono le canzoni.
L’apertura di “Browne sugar” – che fu anche singolo lancio – resterà per la band inglese come una firma per tutta la loro irripetibile carriera. La sua carica, come sempre soprattutto grazie ai riff di Keith Richards, è unica e sicuramente i suoi riferimenti alla droga e ad ogni tipo di attività sessuale – al limite del lecito e oltre – hanno contribuito a costruire nell’immaginario collettivo l’immagine di ragazzacci che Jagger e compagni hanno sempre di buon grado accettato, anche se non artificiosamente cercato.

La favolosa ballata “Wild Horses” (registrata in America insieme alla precedente nel 1969, ma tenuta da parte per la “seconda parte della carriera”, post Decca) dalla melodia sognante, unisce il suono della chitarra acustica, al suono di quella elettrica che ci ricama sopra dei dolci accordi. Il testo non parla come molti ritengono, della relazione fra Jagger e Marianne Faithfull (coautrice di un pezzo incredibile come “Sister Morphine”), infatti lo stesso cantante ci tenne a sottolineare come all’epoca la relazione fra i due era già finita. Su questo pezzo e sulla midtempo “Dead Flowers”, i più county oriented dell’album, l’influenza notevole di Gram Parsons dei Byrds, nonché amico di Richards è sempre stata ammessa dai due autori principali. Anche Mick Taylor ovviamente ebbe un ruolo importante e il suo momento epico lo trovò nel lungo assolo affilato e psichedelico in stile Santana che taglia come una lama la lunghissima (almeno per i loro standard) “Can’t you hear me knockin’”, sostenuta dalla sezione ritmica Watts/Wyman in pieno stato di grazia. Gli archi della placida “Moolight Mile”, rappresentano invece l’emozionante conclusione di un disco da 10 e lode.

Nella nostra valigia dell’Isola Deserta gli Stones non potevano mancare (ne aggiungeremo anzi sicuramente almeno un altro imprescindibile), se non altro per l’innegabile ruolo che hanno avuto negli anni 70 e che mutatis mutandis, in qualche modo, continuano a svolgere, nonostante l’età che sembrano non sentire affatto.