Thomas “Fin”, recensione

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Sono passati quattro anni… ed eccomi nuovamente a discorrere su i Thomas, questa volta promossi da una nuova e vivace realtà bolognese: la Blob Agency. L’agenzia di promozione musicale e booking arriva a noi carica delle note riuscite di Fin, seconda fatica data alle stampe grazie alla preziosa sinergia con la Seahorse Recording.

Oramai attivi da ben tre lustri, i Thomas ricominciano dalla “fine”, proprio come era solito fare Stanley Kubrick, i cui finali filmici possedevano occulti rimandi all’opera seguente. Infatti, mostrando una rinnovata specificità eclettica in grado di ridefinire impossibili confini di genere, il lavoro, prodotto da Massimiliano Zaccone, mostra di sé una sorta di ragionata indecifrabilità, pronta a fornire sensazioni multi cromatiche in cui lo sguardo psichedelico e funky palesano un marcato lato espressivo. La coniugazione artistica ben armonizzata da riflessi popular, nonostante l’aspetto legato all’immediatezza, ricama sulle proprie note espressività alternative, (cripto)folk e groove easy listening, rivisitato da un piacevole gusto estetico, calibrato alla perfezione dalla work art di Veronica Viotti.

Undici tratte musicali date a battesi dall’introduttivo sampler di Universe is me, tracciato evolutivo che, senza troppo ardire, si pone su di una linea metodica ed ipnotica atta a raccoglie sentori particolari, che riportano alla mente strutture Prodigy (!), qui scarnificate della violenza espressiva tipica del duo inglese. Un sound appoggiato su criteri espressivi più gentili ed edulcorati rispetto al mondo di Flint, proprio come dimostrano i rimandi vintage di alcuni passaggi. La metodica espressiva è quella di un piccolo sentiero danzante, in cui l’alternatività di stampo indie si abbraccia ad elettronica lineare e pulita, mentre Il marcato prog della seconda parte anticipa il fade out cripto space e i battiti dei tom-tom, sui quali si appoggia la voce funky del frontman.

Piccoli sviluppi alternativi ed inattesi elementi corali, sembrano legati ai bordi di Lowland Boletus prima e Masturbation poi; esalazioni danzanti e riff trainanti, che paiono abili nel determinare un andamento agogico ben differenziato rispetto all’incipit. Una sorta di dicotomia espressiva interposta tra seventies definito e strutturazioni popular, in favore di un dualismo narrativo raccolto tra i confini di acuti e controcanti, in cui la profondità della voce intensa, si unisce in un collage sonoro legato (ancora) al mondo di Blood sugar sex magik
L’impronta emotiva viene poi acuita dagli occhi serrati di April Fool e dall’aurea jazzata di Tether, in cui le bacchette, raccontate da i tasti bianchi e neri, aprono ad una visione alternativa, legata a passaggi corali e a sentori sonici, pronti a riportarci negli anni’70, periodo a cui il disco sembra voler anelare.

Le sensazioni jazz, ci trasportano poi nella leggerezza nuvolare di A New ending mediante giochi pshyco-delic che inizialmente portano ad un gusto visionario ed inquieto, per poi convogliare verso un’armonia tribal. Sensazione, amplificata nella sua allegoria, attraverso l’uso di fiati e metodiche espressive.

A chiudere il cerchio sono infine le sognanti emozioni sonore di A Turn me up, dominata da riuscite enclave solitarie della sei corde, e l’ ammaliante serie di passaggi funk di Nine O’clock, che sembra rimandare ad una curiosa aurea iberica, tra ottimi refrain e pelli anni’80 .

Un disco dunque che prosegue il processo di maturazione iniziato con Mr Thomas’ travelogue fantastic, attraverso un percorso attento e curano nei suoi impercettibili aspetti.