Vinicio Capossela – Da solo, recensione.

Vinicio Capossela - Da solo

Vinicio Capossela, dopo l’esordio di “All’una e trentacinque circa”, il suo primo pregevole lavoro di quasi vent’anni fa, splendidamente registrato, ha continuato a produrre album poetici, evocativi, fisici, musicalmente imprevedibili, fino a questo lavoro nel quale le parole dei brani prendono vita dalla musica che le avvolge, a rappresentare sensazioni che l’ascoltatore coglie e adatta ai propri ricordi e al proprio sentire.

E’ impossibile non perdersi in descrizioni infinite di un lavoro che va ascoltato nel silenzio, al buio, che non va sprecato con ascolti frettolosi, un lavoro che ad ogni ascolto propone nuove visioni.

“Il gigante e il mago” apre l’album ed esprime, con il supporto di arrangiamenti di fiati che scivola nel finale verso colorazioni circensi e con la suggestiva voce di Capossela che assume a tratti venature infantili, la bellezza e la speranza del divenire adulti senza perdere il proprio mondo fantastico, perché in quel mondo interiore ci si può e ci si deve rifugiare.

Stralunato, sognante, splendidamente delirante… Così ci appare Capossela dopo il brano di apertura e in buona parte di questo lavoro, inclusa la metaforica “Il paradiso dei calzini” nella quale i calzini spaiati prendono vita e anima, a rappresentazione delle coppie spaiate, in una storia narrata con il sottofondo di pianoforte, archi e strumenti giocattolo.

“In clandestinità” rappresenta il desiderio di un’altra fuga, la fuga da come ci rappresentiamo, per diventare ciò che siamo, mentre le delicate “Parla piano” e “Orfani ora”, splendide, rappresentano la solitudine ed il rifugio nei ricordi dopo una storia d’amore finita, ma non dimenticata interiormente.

Il pianoforte e la voce, nei tre brani sopra citati e in gran parte dell’album, si abbracciano, mentre gli altri strumenti restano sullo sfondo a creare lo spazio ed il tempo in cui accadono gli eventi narrati: i suoni degli strumenti a volte sembrano essere attraversati dall’artista e dal suo pianoforte, come se cantante e pianoforte galleggiassero nell’atmosfera, sospesi e fluttuanti.

Il fallimento di una nazione che ha perso sé stessa di “Vetri appannati d’America” e la precarietà e la desolazione di “Dall’altra parte della sera” ci danno sensazioni di una terra attraversata dal nulla, di vento freddo e inverno, mentre “Lettere di soldati”, pianoforte e violoncello su tutto, spacca il cuore di tristezza, e ci accompagna in uno scenario di desolazione e lacrime, di morte e distruzione di cose e persone, nel quale si è perso ogni senso di umanità, che sopravvive solamente dentro alle lettere d’amore dei soldati.

“Non c’è disaccordo nel cielo”, pianoforte solenne e voce sofferta, unico brano non scritto da Capossela, chiude questo album, e potremmo dire l’esistenza, con un’ultima visione onirica, rappresentazione del paradiso, al termine di un ascolto emozionante.
In realtà l’album non finisce con l’ultima nota di “Non c’è disaccordo nel cielo”. Se si ha la pazienza di aspettare infatti all’ultima nota del brano segue una lunga pausa, al termine della quale appare un caleidoscopio metafisico di suoni che fanno riaffiorare i brani dell’album, scomposti e disordinati, come disordinati sono i sogni e i ricordi quando si presentano improvvisi alla mente.

Tutto perfetto? Quasi. Solo due note leggermente dissonanti, non dico stonate… “La faccia della terra” non ha niente che non va in sé, ma le sue reminescenze messicaneggianti e la sua ripetitività personalmente sembrano un po’ fuori contesto, mentre “Una giornata perfetta” è da me non giudicabile, data la mia avversione per il tip tap…

“Da solo” è un disco di cuore e anima, un disco meditativo in cui si respira l’aria fredda dell’inverno, e che coniuga la qualità artistica dei brani con una buona qualità di incisione: la particolare voce di Capossela merita una catena di riproduzione audio di buon livello, per essere apprezzata a fondo nelle sue venature, in questo suo lavoro.