Brilla per sempre. Un ricordo di Syd Barrett

NULL

Prima parte
Ok: pare che alla fine io sia veramente morto.

Adesso tutti scriveranno (anzi, molti lo fanno ormai da anni) il mio “de profundis” descrivendomi come un tipo eccentrico e strafatto, come un genio incompreso, come una meteora del rock, come una vittima dello star-system e dio sa cos’altro.

Ma la verità è che io ho vissuto nell’unico modo che mi era possibile in questo mondo assurdo e insensato: osservarlo lateralmente e percorrerlo nella sua parte più nascosta e più pura.
Ero drogato? Ero pazzo? che significa tutto ciò di fronte all’eterea immensità che ho creato per anni nella mia mente e che d’ora in poi sarà l’unica e vera realtà cui arrendermi?

Una volta i miei compagni di un tempo mi dedicarono un disco, “Vorremmo che tu fossi qui”: si, ma a fare che? a suonare insulse canzoncine per chi o per cosa? ad accumulare soldi per poi spenderli come?

Il mondo che mi si è palesato davanti agli occhi per anni è il vero malato; tutti voi, uomini “normali”, siete i veri pazzi, assuefatti alla routine distruttiva della sopraffazione e del denaro, dell’arroganza e del potere: io ho visto e sentito cose che sono del mondo ma che voi non potete né vedere né sentire, ho respirato l’aria immacolata dell’essere sia qui che lì e ho percepito, sì, ho percepito ciò in cui ora mi immergo, l’oltre.

In realtà io non sono morto, per il semplice fatto che non ho mai vissuto: non ho mai vissuto per come intendete voi questo processo, naturalmente.

Io ero e sono ovunque, nel cielo come nel mare, su un ramo come su un prato, nel sangue come nello sperma, nel pianto come nel riso, nell’attesa come nell’avvento, nel tramonto come nell’alba: come il mio pifferaio.

Seconda parte
I Pink Floyd nascono nel 1965.
Syd Barrett, il chitarrista-fondatore, dà il nome al gruppo ispirandosi a Pink Anderson e a Floyd Council, due bluesmen americani poco conosciuti, a dire il vero.
All’inizio il repertorio è integralmente fondato su standard del blues e del rock’n’roll, ma pian piano, il gruppo (completato da Roger Waters al basso, Nick Mason alla batteria e Rick Wright alle tastiere) comincia a inserire nelle sue performance alcuni brani strumentali, lunghi e dalle sonorità atipiche, composti da Barrett.

Tra il ’66 e il ’67 si diffonde in Inghilterra il movimento psichedelico e i Pink Floyd, che nel frattempo stanno anche organizzando i loro live-show in termini sempre più multimediali (uso non convenzionale di luci e di diapositive ad accompagnare i brani), sono tra gli alfieri di questa rivoluzione socio-musicale.

Agli inizi del ’67 il gruppo esordisce su vinile con “Arnold Layne”, brano di Syd Barrett: musicalmente le tastiere e la chitarra disegnano ghirigori che hanno un sapore tutto originale e per niente identificabile nei classici canoni del beat allora imperante; liricamente, con la storia di un tizio che ruba biancheria femminile, siamo agli antipodi della classica canzone d’amore.

Il bis, tre mesi dopo, è ancora più riuscito: esce la splendida “See Emily play”, una delle più belle canzoni scritte da Barrett, autentico manifesto della psichedelia inglese con l’organo che si invola in magici territori esotici.

A coronamento di tutto ciò, ad agosto del ’67, esce THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, straordinario primo album della formazione e pietra miliare della storia del rock.
Sotto un certo punto di vista (che è quello dell’assoluta atipicità e originalità della proposta musicale) il disco rappresenta un ‘unicum’ sia nel campo della psichedelia sia, addirittura, nell’ambito della discografia dei Pink Floyd.

L’album (che è interamente composto da Syd Barrett, a parte un intervento dell’ancora acerbo Waters) mette in musica e in parole la visione del mondo del suo autore, visione del mondo che è costantemente distorta, alterata, camuffata, trasformata ma anche purificata e resa materia prima intoccata e intoccabile dalle sue surreali fughe lisergiche.

Il disco presenta due splendide incursioni nel rock ‘cosmico’, “Astronomy dominé” e “Interstellar overdrive”, dove gli effetti elettronici e l’evidente spazialità della musica, lungi dall’essere solo una decorazione esteriore, trasmettono realmente l’idea di un viaggio interstellare immaginato ma anche vissuto realmente sotto gli effetti di una qualche sostanza stupefacente: qui i Floyd, e segnatamente Barrett, pionieri di un territorio vergine, superano in maniera radicale quanto imprevedibile il classico formato canzone.

Il resto dei brani (che urlano la loro assoluta originalità e freschezza attraverso sonorità che, se anche a volte ingenue, rifulgono di una splendida luce propria – da “Lucifer Sam” a “Matilda mother”, da “The scarecrow” a “Bike”) sono affascinanti quanto misteriose favole costruite secondo il tipico linguaggio apparentemente infantile e inconcludente di Barrett (non a caso il titolo dell’album proviene da “Il vento nei salici”, un romanzo per bambini scritto da Kenneth Graham).

Linguaggio semplice e inconcludente solo in apparenza, ma in realtà pieno di significanti/significati che illustrano la folle lucidità di un uomo che, profondamente provato, nella sua già fragile psiche, da un’infanzia difficile (la precoce perdita del padre e la presenza di una madre, pare, oltremodo possessiva) combina, nella sua mente pervasa dagli acidi, in maniera magica e fatale, i riferimenti fantasiosi e fiabeschi della sua infanzia con la sua realtà stravolta di uomo e di artista, tentando, invano, di padroneggiarne sia i contenuti che le tragiche conseguenze.

In questo senso i due album solisti di Syd Barrett pubblicati nel ’70 (THE MADCAP LAUGHS e BARRETT) sono l’esempio più eclatante di questa ormai inarrestabile e non più componibile frammentazione del suo universo mentale: i dischi, composti da bozzetti armonici e melodici originalissimi, sono splendide e incompiute prove del suo genio ormai laterale a ogni percorso canonico della musica come della vita in generale.

L’ormai conclamata dissociazione mentale dell’artista lo porta ad essere dimissionato dal gruppo nei mesi successivi, ma c’è ancora una sua traccia, fondamentale, nel successivo album del gruppo, A SAUCERFUL OF SECRETS: “Jugband blues”.
La canzone, registrata subito dopo l’uscita di THE PIPER e con il suo autore ancora alla guida del gruppo, rivela la sua importanza soprattutto nella raggelante, lucida follia dei primi due versi, inequivocabile autodiagnosi del suo stato di schizofrenia:
“E’ molto gentile da parte vostra pensare che io sia qui /
e vi sono molto obbligato per aver messo in chiaro che io non sono qui.”

Terza parte
Prima di concludere, vorrei raccontarvi cosa ha significato per me quest’uomo.

Ho cominciato a sentir parlare di lui quando avevo circa 15-16 anni, quando, cioè, dopo aver ascoltato e incominciato ad amare THE WALL, mi capitò tra le mani WISH YOU WERE HERE, l’album che gli altri Floyd gli avevano dedicato nel ’75: un chitarrista che aveva fondato una band straordinaria e che poi era impazzito e aveva cominciato a vivere ai margini, non solo della scena rock, ma della vita.

Una cosa che mi affascina immensamente ancora oggi, figuriamoci allora, quando il mondo, sia quello reale che quello immaginario, mi apparivano ancora come una enorme e indistinguibile nebulosa in cui tutto si mischiava per dar vita a qualcosa che fosse solo bellezza e purezza.

Oggi so, purtroppo, che non è così, so che il mondo è un’interminabile e noiosa sequela di compromessi e di “dover venire a patti” – a volte alti, più spesso bassi -, di false vittorie e false sconfitte – in nome di una ragione più alta, ma talmente alta che a me appare sempre più invisibile e incomprensibile -: e oggi so che evidentemente Syd Barrett aveva intuito tutto questo e aveva preferito andarsene per i fatti suoi su una retta parallela, in un mondo parallelo, all’infinito.

Provo a immaginare come potrebbe reagire un ragazzo di oggi, imbevuto di Mtv, di suoni digitali e di ritmi pieni di loop e sequencer, all’ascolto di THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, anno di grazia 1967: arriverebbe alla fine o si scoccerebbe dopo il secondo brano? si sforzerebbe di capirlo o si metterebbe a ridere e a deriderlo?

Non lo so: anch’io, quando lo ascoltai la prima volta (se non ricordo male era il 1980) rimasi sconcertato, non ci capii nulla, però…
Quel titolo, innanzitutto: il pifferaio, un personaggio tipicamente favolistico, così scopertamente irreale, che ti apre i cancelli dell’alba, di un nuovo giorno e di una nuova vita, vita che ti chiede di essere vissuta in maniera diversa, vera, profonda, piena.
E poi quei suoni: così strani e distanti da quanto ascoltato fino a quel momento (e, ad essere sinceri, ancora oggi che, di musica, ne ho masticata e ne mastico fino – e anche oltre – alla cima dei pochi capelli rimastimi, quel disco mi appare veramente irripetuto, oltre che irripetibile).

Si parla sempre, in casi come questo, non di arte ma di droga, di allucinazioni psichedeliche, di lsd e, dulcis in fundo, di devianza o irruenza giovanile da combattere o tenere a bada: sarà…
Per me quel disco è un viaggio della mente e nella mente: senza stereotipi, bigottismi e steccati, libera di fluttuare nel micro come nel macrocosmo, libera di creare, di fermarsi e ripartire, libera di essere.
Grazie, Syd.