Matteo Poli “Stay[sic] la minaccia generazionale di Slipknot”, recensione

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Non so bene il perché, ma nel mio portafoglio ancora c’è il biglietto di quel 20 maggio 2001, quando per la prima volta vidi un concerto degli Slipknot.

Fu incredibile.

Ricordo un Palavobis ricolmo, pronto ad accogliere gli Static X ed i Mudvayne in maniera tiepida ma osservativa. Tutta l’arena in fondo attendeva solamente i nove musicisti dell’Iowa. Qualcosa in me stava per evolversi, non avevo aspettative particolari, ma solo curiosità. Le voci che da tempo ammaliavano i maggots, parlavano di un live show unico e disorientante, ed ero pronto ad assistere all’evento, non solo per dare credito ai rumors, ma anche e soprattutto per vestirmi da larva. Inconsciamente (allora) e consciamente (oggi) posso dire di essere rimasto folgorato. Un’illuminazione dapprima casuale, dovuta al mio istintivo e incosciente acquisto del loro debut, e poi ragionata, grazie alle innovative formule espressive, che quelle nove inquiete e inquietanti maschera sapevano donare.

Con il senno del poi, dunque appare per me un onore ed un onere particolare poter parlare di questo nuovissimo Stay[Sic], La minaccia generazionale di Slipknot, volume biografico curato da Matteo Poli.
Il libro, edito da Chinaski Edizioni, offre un viaggio accurato nella realtà sepolta della band; un sentiero erto che trova il suo incipit tra i campi di granoturco, da cui il ripudiato Mate, Feed, Kill, Repeat vide la luce, per poi appoggiarsi quieto al deludente All hope is gone, ultimo full lenght al quale l’autore del libro dona solo poche pagine finali. La struttura portante del volume, infatti, si assesta tra il 1999 ed il 2004, anni in cui la band ha dato al proprio pubblico una linfa vitale senza confini. Proprio la genesi dell’odierna line up, la struttura metaforica delle maschere e le concettualità di logo e impostazioni, rappresentano (solo) alcuni dei punti perno delle 250 pagine, ricche di aneddoti shockanti e surreali. Un compendio di follia molto vicina alle aberrazioni narrate dal nero reverendo ne La mia lunga strada dall’inferno.

Durante la snella lettura, non mancano storie apparentemente inverosimili che partono, guarda il caso, proprio da Des Moines, città resa celebre dal pipistrello decapitato da Mr.Osbourne. Vi troverete a dover capacitarvi dell’istinto omicida di #5, dei calcagni deflagrati di Sid e delle tendenze maniaco depressive di Corey Taylor, in un vortice di insania che supererà le vostre aspettative.

La storia della band è difatti raccontata nei minimi particolari, attraverso un stile narrativo che solo all’inizio può apparire eccessivo nel suo voler instaurare un forzato dialogo con il lettore. Infatti, dopo i primi capitoli, avrete l’opportunità di ridimensionarvi nella struttura narrativa, abile nell’alternare competenza tecnica, espressa dal commento delle singole tracce, a snodi descrittivi che restituiscono, con genuina cronaca, la reale follia di una band dal coerente coraggio (almeno sino ai versi subbliminali ) di esprimere se stessa, attraverso sonorità e liriche specchio di un’instabilità emotiva che Matteo Poli riesce ad incastonare tra le pagine di un libro essenziale per chi, come me, ha amato e vissuto tra le note del nodo scorsoio.