The piper on the moon: la storia dei Pink Floyd capitolo 5

Pink Floyd - The wall

Durante il tour americano del ’77 Roger Waters comincia a manifestare sempre più evidenti segni di insofferenza nei confronti della realtà routinaria e alienante che lo circonda: il rito sempre più uguale a se stesso del concerto, l’atmosfera di contorno che diventa sempre più importante del contenuto, l’ingombrante ruolo di idolo per migliaia e migliaia di ragazzi.
Ciò che aveva paventato nei testi degli album precedenti, comincia a diventare tragica realtà vissuta sulla propria pelle, realtà talmente opprimente che il 6 luglio, a Montreal, ultima tappa del tour, c’è la goccia che fa traboccare il vaso.

Lasciamo la parola a Waters: “Ormai ero così angosciato, durante lo show, che sputai addosso a uno in prima fila che urlava e si divertiva moltissimo spingendo le transenne: in realtà, lui voleva fare casino e io volevo fare uno spettacolo di rock’n’roll. Mi arrabbiai così tanto che alla fine gli sputai addosso: una cosa odiosa. Mirai molto bene perché lo presi in piena faccia”.

In quel momento, nella mente stravolta della rock-star Roger Waters, comincia a prendere forma l’idea portante di THE WALL, la consapevolezza dell’esistenza di un muro che, man mano, una qualsiasi persona famosa del mondo dello spettacolo – ma la metafora è facilmente estendibile ad ogni essere umano e ad ogni situazione di chiusura mentale e materiale – vede costruirsi intorno, vuoi per sua volontà, vuoi per volontà di tutti coloro che lo circondano, lo osannano e lo idolatrano, a simboleggiare l’autentica, disperata, condizione di incomunicabilità in cui precipita, o rischia di precipitare, ognuno di noi nella frenetica società odierna.

Sentiamo ancora il bassista: “L’idea di THE WALL è nata dopo dieci anni di tour con spettacoli rock, credo soprattutto dopo gli ultimi anni, quando suonavamo davanti ad un pubblico enorme. Alcuni venivano per ascoltare quello che volevamo suonare, ma la maggior parte era lì per bere birra. Suonavamo sempre in grandi stadi, e diventò un’esperienza abbastanza alienante fare gli spettacoli; io divenni conscio del muro che ci separava dal nostro pubblico e, quindi, questo disco è nato da orribili spettacoli. Era veramente difficile cercare di suonare in mezzo a quella baraonda; allo stesso tempo, però, capivo che era una situazione che avevamo creato noi stessi, con la nostra ingordigia: la sola ragione per cui si suona davanti ad un grande pubblico è per guadagnare di più”.

Queste lucidissime affermazioni di Waters sono il miglior punto di partenza per una precisa e attenta disamina di THE WALL.
La stesura dell’opera si sviluppa tra l’autunno del ’77 e il luglio dell’anno seguente; successivamente Waters registra un demo che fa ascoltare agli altri membri del gruppo (ricevendone incondizionati consensi) nel novembre ’78.
La vera e propria registrazione avviene tra l’aprile e il novembre successivi e, finalmente, il disco, doppio, viene pubblicato il 30 novembre 1979.

THE WALL è un album straordinario, vitale, unico, perfetto nella mirabile unità di intenti e di impulsi creativi: carico di mille suggestioni, profondo e mai banale, quasi mai retorico o ridondante, misurato e spettacolare allo stesso tempo, coglie un gruppo nel pieno della sua maturità espressiva e un autore, Waters, al massimo delle sue possibilità ideative.

Aldilà di ogni etichetta (che, nel momento in cui connota un disco o un gruppo o un autore, ne delimita, anche, o ne trattiene, addirittura, la versatilità espressiva o immaginifica), questo disco realmente rappresenta uno strepitoso, irripetibile unicum, in cui i testi raccontano una storia organica, originale, profondamente vissuta e sofferta, e in cui la musica, in un caleidoscopio magicamente assortito di umori, rumori, effetti, generi, assonanze, è veramente l’esaltazione più geniale e affascinante dell’universo rock: THE WALL è il vero capolavoro dei Pink Floyd di Roger Waters, quella straordinaria sintesi di letteratura e di musica, di sperimentazione e di fruibilità che per anni il gruppo ha cercato invano.

Ultima, in ordine di tempo, delle grandi opere rock (ricordiamo TOMMY e QUADROPHENIA dei Who o THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY dei Genesis, per citare solo quelle più conosciute), questa splendida raccolta di brani, a differenza di tutti i precedenti dischi dei Pink Floyd, non viene sottoposta ad un’antecedente verifica live (per saggiare le reazioni del pubblico), ma nasce e si sviluppa interamente in studio, ad ulteriore riprova della sua notevole caratura.

Cerchiamo di analizzare il contenuto dell’album sia dal punto di vista musicale che lirico: la canzone d’esordio, “In the flesh?”, è un solenne rock che ci fa letteralmente precipitare (si ascolti il rumore dell’aereo che sembra caderci addosso) nella storia (a riprova della derivazione del disco dal tour del ’77, ricordiamo che ‘In the flesh’ era il nome di quel tour fatale).
Si passa a “The thin ice”, dove comincia la vera storia di Pink, ancora bambino, autentico alter ego di Roger Waters: il tutto è immerso in una dimensione onirica tra l’acustico e lo splendore rock della chitarra gilmouriana.

“Another brick in the wall (part one)”, splendida negli intarsi di basso e chitarra, è drammatico riferimento alla morte del padre di Pink/Roger durante lo sbarco degli alleati ad Anzio nel corso della seconda guerra mondiale: il primo mattone (lucida metafora della tremenda e opprimente incomunicabilità umana) del tragico muro watersiano è posto qui.
(Per inciso: a questo punto, nel film THE WALL, dell’82, è inserita la solenne “When the tigers broke free”, tenera, quanto amara, descrizione della morte del padre).
Seguono, in un continuum, “The happiest days of our lives” e “Another brick in the wall (part two)”: durissimo atto d’accusa verso gli assurdi metodi di insegnamento (ma, soprattutto, di coercizione della volontà) attuati nell’Inghilterra dell’epoca: ecco il pesantissimo secondo mattone nel muro.
Musicalmente, “Another brick…”, connotato da un bell’assolo di Gilmour, è un brano facile e orecchiabile (non a caso uscì come singolo), ma notevolmente efficace.

“Mother” è immersa in una dolcissima atmosfera acustica che fa a pugni col durissimo testo: un altro atto d’accusa a metodi di educazione sbagliati e un altro, decisivo, mattone nel muro con cui Pink si emargina dal resto del mondo.
Anche la seguente “Goodbye blue sky” ha, musicalmente, una struttura molto semplice: ma ciò che conta è l’atmosfera, di straordinaria tensione e di timorosa attesa per quello che sta per succedere.

“Empty spaces” è un momento cruciale: Pink si sta avviando inesorabilmente a completare il muro, mentre tutto intorno la musica è una cascata ossessiva di suoni (ancora un inciso: a questo punto, in tutte le rappresentazioni concertistiche dell’opera – ben illustrate dallo splendido cofanetto IS THERE ANYBODY OUT THERE?-THE WALL LIVE –, ma non sul disco, appare “What shall we do now?”, logico seguito della song precedente).
Poi c’è un trascinante rock, “Young lust”, con tanto di performance gilmouriana (non a caso la musica del brano è sua), dove si parla delle prime esperienze sessuali del giovane Pink, seguito dall’efficacissima (ricca di effetti e di pathos) “One of my turns”, disamina psicanalitica dell’oscuro tunnel in cui è precipitata la vita del protagonista; analisi rafforzata da “Don’t leave me now”, dove Pink, musicalmente immerso in una continua sequenza di forti e di piani, riflette, disperato, sul fatto che anche la sua donna lo abbia lasciato, ulteriore mattone nel muro.

“Another brick in the wall (part three)” e “Goodbye cruel world” sono la presa di coscienza (apparentemente definitiva) dell’inevitabilità e, tutto sommato, della validità dell’erezione di quel muro: ora è completo e Pink è completamente circondato e chiuso.

La seconda parte inizia con “Hey you”, splendida ballata, nel cerchio della migliore tradizione floydiana: il brano, anche visto in un’ottica autonoma, è magnifico e celebra, nel miglior modo possibile, l’atmosfera tesa e immaginifica di THE WALL e dell’intera produzione post UMMAGUMMA dei quattro.
In questa canzone, e nell’inserto successivo, “Is there anybody out there?”, Pink, resosi conto dell’inefficacia interiore del suo isolamento, cerca disperatamente di riprendere un contatto umano.
La dolcissima canzone successiva, “Nobody home”, è intrisa di una soffusa, coinvolgente, atmosfera pianistica, mentre la voce e il testo di Waters sono veramente un tutt’uno con la disperazione e il senso di abbandono che avvertono il protagonista e l’ascoltatore, sentimenti rafforzati dalla successiva, sconsolata “Vera”.

Introdotta da quella che sembra una banda militare, arriva la breve “Bring the boys back home”. Secondo Waters è il brano più importante dell’album perché “in parte parla dell’importanza di non lasciare andare la gente alla guerra, in parte parla della necessità di non permettere che né il rock’n’roll , né il lavoro, né qualsiasi altra cosa diventino più importanti degli amici, delle mogli, dei figli e delle altre persone”.

Riprendiamo il filo narrativo: Pink/Roger è (non dimentichiamolo) il leader di una band di rock’n’roll e deve, quindi, andare a fare uno spettacolo, ma è chiuso/circondato dal muro (rappresentato, nella sceneggiatura della storia, dalla sua stanza d’albergo). Il suo impresario e il dottore, ai quali non importa nulla della sua salute, ma importa solo il denaro che c’è dietro il concerto, fanno di tutto per risvegliarlo e portarlo sul palco: tutto questo è “Comfortably numb”, il capolavoro di David Gilmour, con la sua chitarra che, inserita in un limpido contesto melodico, raggiunge il picco della sua corposa espressività, dando, nello stesso tempo, prezioso risalto alle parole di Waters.

Seguono “The show must go on”, amara presa di coscienza del protagonista sulla (quasi) ineluttabilità del suo ruolo di catalizzatore di masse (e di denaro), “In the flesh” (risposta lirico-musicale alla canzone iniziale dell’opera) e “Run like hell” (efficace, anche se un po’ scontata, nel suo andamento disco-rock) con Pink trasformatosi in un terrificante dittatore nazi-fascista: qui il parallelismo watersiano tra gli intolleranti (e falsi) idoli del rock e gli intolleranti (e falsi) totalitarismi politico-militari (entrambi soggiogano le folle con la pura forza delle loro parole e delle loro immagini svuotate di qualsiasi reale significato) è tremendamente cinica quanto lucida.
“Waiting for the worms”, con il suo andamento musicale ossessivo e claustrofobico, è metafora dell’estremo appannamento della coscienza di Pink dovuto alle droghe e ai cattivi condizionamenti esterni: alla fine arriva “Stop”, basta!, un grido liberatorio di Pink a questa esperienza disumanizzante che sta vivendo.

Segue “The trial”, con tanto di orchestra e cori, efficacissima e assolutamente amalgamata al resto del contesto: liricamente è un processo interiore con il quale il protagonista scandaglia in maniera impietosa il suo animo al fine di prendere coscienza delle sue colpe e di redimersi, abbattendo il muro e aprendosi agli altri, accettandoli così come sono e facendosi accettare per come è.
“Outside the wall” chiude l’opera con questo anelito, pur faticoso e faticato, alla fratellanza che tutto vince, comprese le nostre paure.

La messa in scena live di THE WALL è di notevole complessità, visto che viene riproposto in maniera pedissequa, concettualmente e visivamente (con tanto di costruzione e di crollo finale del muro), l’intero andamento narrativo: ciò comporta, tra l’80 e l’81, una limitata serie di concerti a Los Angeles, New York, Londra, Dortmund e, ancora, Londra.

Nell’82 THE WALL diventa uno splendido film (magistralmente diretto da Alan Parker e superbamente interpretato da Bob Geldof – all’epoca leader dei Boomtown Rats e, di lì a poco, ideatore del Live Aid) immerso in una dimensione sospesa tra finzione e realtà, tra cartoni animati ed esseri umani, tra incubo e sogno, tra alienazione e libertà.
Già adombrato nelle performance live, qui finalmente il correlato visivo delle opprimenti (e, nello stesso tempo, attraenti) ossessioni mentali di Waters ha modo di esprimersi in maniera splendidamente coesa e completa.

Ma THE WALL non è solo luce imperiosa e fulgida, poiché nasconde, tra le sue pieghe, anche qualche miseria umana: alla fine della registrazione del disco Waters, sempre più padre padrone del complesso, impone a Wright, reo di aver dimostrato scarso interesse per l’intero progetto, di abbandonare il gruppo (tanto che nei concerti il tastierista compare come semplice accompagnatore).
Paradossalmente, ciò che per Pink diventa parabola catartica per la sua vita immaginaria, per Roger Waters, artista e uomo in carne ed ossa, si trasforma in ossessivo sfogo delle sue paranoie egocentriche ed autoreferenziali.
Siamo, ormai, in prossimità del taglio finale…