The piper on the moon: la storia dei Pink Floyd capitolo 6

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La figura del padre di Waters morto durante la seconda guerra mondiale, già adombrata in THE WALL (disco e film), diventa, nell’immaginario del figlio, preponderante.
Questo fa sì che le ispirazioni e le rappresentazioni unitarie e complessive di cui, fino a quel momento, si erano fatti interpreti i Pink Floyd, diventino progetto assolutamente individuale che stenta a raggiungere una prospettiva catartica, ma mantiene, a ben vedere, un connotato universale.

Il colpo di grazia viene dato dalla guerra tra Gran Bretagna e Argentina, nell’estate dell’82, per il possesso delle isole Falkland.
Waters: “Mi sono incazzato così tanto che ho trovato la spinta per comporre canzoni che, altrimenti, non avrei mai scritto. Ho cominciato a comporre brani nuovi finché non ho ottenuto ciò che volevo. Così è nato THE FINAL CUT”.

L’album, sottotitolato “A requiem for the post war dream” e dedicato a Eric Fletcher Waters, può essere considerato, a tutti gli effetti, un disco solista del bassista, visto che è interamente composto da lui e visto che Mason e Gilmour (Wright ormai non c’è più) sono trattati, durante le registrazioni e nei credits, quasi alla stregua di session-men.
THE FINAL CUT (il titolo è ambivalente metafora: sia della tragedia della guerra che, pur vittoriosa, non ha reso giustizia ai sogni e alle speranze di chi si è sacrificato per un mondo migliore, sia – nel caso si dia a ‘cut’ il significato di ‘incisione’ o di ‘realizzazione’ – del tassello definitivo della discografia Pink Floyd) esce nel marzo ’83 e, da subito, è valutato come un non efficace seguito dello straordinario disco precedente, poiché sembra riciclare, senza molta inventiva e originalità, idee precedentemente sfruttate.

In realtà THE FINAL CUT è un disco estremamente suggestivo e stimolante, sebbene molto particolare.
Difficilmente si possono estrapolare singoli brani dal contesto generale: il tutto appare (nel solco della tradizione floydiana) una lunghissima suite con singoli movimenti che, tutti assieme, in un mood coerente e, sovente, affascinante, convergono verso il doloroso e dolorante risultato finale.

L’album è connotato (sia nei testi – assolutamente straordinari – che nella musica) da un’insopprimibile e irrimediabile cupezza di fondo, da un fosco e quasi perverso pessimismo emozionale, come se su Waters fosse calato per sempre il buio della pietà e della speranza.
Letto in questa maniera, il disco ha un suo indiscutibile fascino e, probabilmente, piuttosto che come l’ultimo, mediocre, album dei ‘veri’ Pink Floyd, andrebbe ascoltato e giudicato come il migliore degli album solisti di Roger Waters.

Archiviato ‘il taglio finale’, tutto si sussegue con estrema quanto penosa rapidità (o lentezza, a seconda della diversa prospettiva dei singoli fan).
Tra il marzo e l’aprile dell’84 escono le prove soliste di David Gilmour e di Roger Waters; nel dicembre ’85 l’ex bassista annuncia al mondo di aver lasciato ufficialmente il complesso (ritenendolo ‘una forza creativa ormai spenta’ e sapendo che i due rimasti, per ragioni contrattuali, senza di lui non avrebbero potuto continuare come Pink Floyd); a ottobre dell’86 Waters, saputo che Mason e Gilmour vogliono incidere un nuovo disco col nome del gruppo, cita in giudizio gli ex compagni; nel febbraio dell’87 i giudici riconoscono a Gilmour e a Mason l’uso legittimo del marchio “Pink Floyd” e a Waters tutti i diritti sull’opera THE WALL.

Così, a settembre dell’87, finalmente (o purtroppo) esce A MOMENTARY LAPSE OF REASON, il nuovo album dei Pink Floyd targati David Gilmour.
Formalmente il disco è ineccepibile: ben composto, ottimamente suonato e registrato, possiede in toto l’imprimatur del gruppo che fu, cogliendo in pieno l’aspetto più superficialmente magico della musica Floyd, ma dando la fortissima impressione di una furba riproposizione di moduli sonori già utilizzati e sfruttati.
Le atmosfere evocate dall’album (con la chitarra di Gilmour che, giustamente, si lancia in begli assoli in passato repressi dall’egemonia watersiana) si situano in un territorio di confine tra DARK SIDE OF THE MOON e WISH YOU WERE HERE, anzi, certi passaggi (si vedano lo strumentale d’esordio “Signs of life”, l’epica “Yet another movie” o la dura “The dogs of war”) appaiono letteralmente dei replicanti, veramente a metà strada tra l’outtake e il plagio.

Gli unici momenti realmente interessanti sono “One slip” (dove sembra far capolino un tentativo di approccio diverso alle consuetudini soniche Floyd) e l’imponente “Sorrow” dove si leggono, tra le righe, amari riferimenti a Waters puntellati dalla bella chitarra di Gilmour.

A coronamento del tour successivo all’uscita dell’album, a fine ’88 viene pubblicato (a quasi venti anni di distanza dal primo) il secondo live della storia del gruppo, DELICATE SOUND OF THUNDER, che ripropone, in una sorta di greatest hits, tutti i migliori brani (o meglio, i più orecchiabili) dell’ultimo album e dell’intera storia della band, in una versione molto vicina agli originali.

Nel ’94 (dopo anni trascorsi nella speranza di un definitivo silenzio…) esce il nuovo lavoro in studio dei Pink Floyd, THE DIVISION BELL.
La più grande novità è la ricomparsa a pieno titolo, come effettivo membro del complesso, di Rick Wright (che nell’album precedente, come Mason d’altronde, aveva fatto solo una comparsata), ma per il resto siamo in presenza dell’ennesima riscrittura gilmouriana (e wrightiana, in alcuni casi) del suono dei Floyd anni ’70.

Il disco è, francamente, prolisso, noioso, con pericolose strizzate d’occhio ai suoni del nuovo rock (se per nuovo intendiamo gli U2 o i Simple Minds… – si ascolti la penosa “Take it back”) e precipitose cadute nel loro mito (gli ennesimi, sfibranti, strumentali).
Dalla diffusa mediocrità si salva solo la splendida conclusione, affidata all’ epica, ma non retorica, “High hopes”.

Com’è ormai consuetudine dei nuovi Pink Floyd, il tour di DIVISION BELL viene celebrato da un mastodontico live, PULSE, che deve il suo nome alle lucette lampeggianti che appaiono sulle costine delle confezioni degli album: come dire, la forma ha ormai definitivamente preso il sopravvento sulla sostanza, sul contenuto.
PULSE merita di essere ricordato solo per la riproposizione integrale (e noiosamente pedissequa), a più di venti anni di distanza, dell’intero DARK SIDE OF THE MOON, a riprova degli intenti puramente riciclatori di Gilmour e company.

Ma è giusto dire che questo deludente (ma forse inevitabile) finale non cancella (ci mancherebbe altro…) quanto di straordinario (mi verrebbe da dire: di incommensurabile) i Pink Floyd hanno fatto con Syd Barrett prima e con Roger Waters poi.
E sono intimamente convinto che tutte le grandi opere che hanno composto, siano un imprescindibile lascito per i diversi approcci delle nuove generazioni rock come per l’intera storia della musica moderna.

All’uscita di THE DIVISION BELL David Gilmour ebbe a dichiarare: “Francamente, può darsi che non abbiamo più molto da dire”.
Ecco, David: mettici una pietra sopra e lascia che suonino i capolavori…