Vinicio Capossela

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Per una volta, vorrei dedicare l’incipit dell’articolo all’organizzazione DuemilaGrandieventi e a tutte quelle persone che lavorano per Vincenzo Spera; la loro gentile collaborazione permette, ormai da molto tempo, a noi di Music-on-tnt di proporre puntualmente resoconti scritti degli eventi musicali di maggior richiamo.

Ora però torniamo a noi con il racconto del concerto genovese di Vinicio Capossela…

Non ricordo! Cerco di riportare alla mente le mie reminiscenze…ma proprio non ricordo un concerto sterminato come questo, capace di offrire quasi tre ore di buona musica. Abituato a live di un ora (talvolta lorda), mi sono reso conto di non essere più avvezzo a cotanta abbondanza.

Gli accaniti fans di Capossela, non possono che dirsi soddisfatti per uno show corposo, intenso e recitativo. La felice vena creativa dell’autore italo-“olandese”, propone una serie incredibile di trovate sceniche e sonore, che rendono ancor più accattivante la sua celebrale musicalità, nata attorno al 1990 nell’underground emiliano.

Le note iniziano a fluire intorno alle 21, sotto due lanterne cinesi che dominano dall’alto un variopinto armamentario strumentale. Le mani della platea iniziano a ritmare l’attesa di uno spettacolo, che come dice lo stesso artista, ha avuto un decorso piuttosto lungo. Vinicio entra in scena vestito di una primigenia pelliccia, dando il via ad un intro grezzo e tribale. Le luci riflettono sulla chitarra del front man, finendo per illuminare i visi di un pubblico spiazzato dalle prime triviali note, che assomigliano ad un tri-industrial dal sapore mefistofelico, implementato da cupe ed inquiete luci oscure. I toni dello spettacolo, raccontati attraverso numerosi cambi d’abito, si ammorbidiscono quando l’eccesso di primitivismo lascia il posto alla voce baritonale di Capossela che, per il suo estetismo disordinato ricorda molto il grande Stanley Kubrick. Dopo alcune battute con il pubblico, la musica torna padrona, mostrandosi attraverso sonorità apolidi dalla saporosità tzigana, tecno, jazz, polka ed acustica. Lo spettacolo è impreziosito da un magnifico teatrino d’ombre cinesi, proiettato su di uno schermo alle spalle dei musicisti, riuscendo a far rivivere antiche sensazioni attraverso il racconto per immagini delle liriche proposte da Capossela, il quale vestito di cilindro e frac, racconta la malinconica dolcezza di “Nel blu”, seguita a ruota da “Dove Siamo Rimasti A Terra Nutless”, ornata da un splendido outro jazz.

Il pubblico adorante inizia a scaldarsi con la storia degli Scheletri negli armadi , dal sapore Degregoriano , il cui coro viene richiamato poco dopo dagli appassionati astanti, che ricreano una vera e propria track-reprise. La festa prosegue veleggiando verso la terza ora di concerto e dopo “Canzone a manovella”, “Lanterne rosse” e “Mosca valza”, Vinicio si ripresenta on stage indossando l’elmo del gladiatore per l’esecuzione di “Al colosseo”, durante il quale il vocalist presenta la sua band con un bizzarre latino. Il pubblico scende a valle, partendo dalla lontana galleria per assiepare il sottopalco e godere da vicino delle trainanti note di “Marajà” e “Che coss’è l’amor”, che conducono per mano lo spettatore verso la conclusione di un oceanico show, che trova il suo habitat naturale proprio in un palcoscenico teatrale come il Carlo Felice, in cui Vinicio riesce al meglio a sfruttare le sue doti di mattatore surreale.

Un concerto quindi ben calibrato, ma forse un po’ troppo diluito, con un unico neo: quattro cafoni che sul finire del live disturbano la performance musicale con volgarità adolescenziali, non riuscendo nell’intento di capire luoghi e situazione, mostrandosi inadatti ad adeguarsi ad un contesto tutt’altro che vacuo, ignorante e scurrile, come il loro ego.