Yesterday and forever: la storia dei Beatles parte terza

NULL

Capitolo 3: la fine

Il 1968 segna l’entrata in scena di un personaggio che contribuirà in maniera decisiva a spezzare quanto era rimasto della magica armonia beatlesiana: Yoko Ono.
John Lennon aveva già conosciuto circa un anno e mezzo prima quest’artista dell’avanguardia musical-pittorica giapponese, ma è a metà ’68 che lei si impadronisce completamente della vita di Lennon: da quel momento la traiettoria musicale e sociale dell’ ‘intellettuale’ del gruppo comincerà a seguire un percorso assolutamente divergente rispetto alla ragione comune, fatto che, assieme agli altri già ricordati, li porterà alla definitiva separazione in meno di due anni.

Ciononostante i quattro, pur lavorando separatamente, sono ancora in grado di produrre un disco spettacolare, anche se ridondante, come il doppio THE BEATLES (meglio conosciuto come THE WHITE ALBUM).
Anticipato da uno stupendo singolo comprendente la magnetica e coinvolgente “Hey Jude” e la dura “Revolution”, l’album rappresenta un catalogo magicamente assortito di tutte le escursioni beatlesiane nel mondo della musica: dal rock’n’roll alla sperimentazione, dal pop alla psichedelia, l’assemblaggio complessivo mettendo in luce la sempre maggiore padronanza tecnico-strumentale-compositiva dei quattro.
Tra i brani più validi e conosciuti ricordiamo “Back in the USSR”, la dolce “Dear Prudence”, “Glass onion”, “Obladì obladà”, la bellissima “While my guitar gently weeps” (probabilmente il capolavoro di George Harrison, con Eric Clapton alla chitarra), la splendida “Happiness is a warm gun” (di John Lennon, malamente coverizzata in anni recenti dagli U2), “Julia”, “Helter skelter” (di Paul McCartney, insolitamente dura e abrasiva) e “Honey pie”.

Nel luglio precedente era uscito sugli schermi il divertente cartone animato psichedelico “Yellow submarine”, la cui colonna sonora (comprendente quattro inediti di scarso valore) viene pubblicata un paio di mesi dopo il WHITE ALBUM.
All’inizio del ’69, in un disperato tentativo di ritrovare l’armonia e la coesione ormai perdute, McCartney propone il progetto “Get back”, un ritorno alle origini musicali e concertistiche del gruppo: le sessions producono alcuni brani (tra cui la canzone omonima, che viene pubblicata su singolo) che, però, rimangono in un cassetto, a causa del risorgere dei dissidi interni e della sempre più grave crisi finanziaria della ‘Apple’.

La Emi, dal suo canto, preme per un nuovo disco e allora i quattro (più George Martin) si rimettono insieme per produrre quello che risulterà essere l’ultimo vero disco dei Beatles.

Nonostante gli ormai insanabili contrasti e la forzata convivenza, ABBEY ROAD è, miracolosamente, un disco splendido che dà la misura dello straordinario potenziale compositivo del gruppo di Liverpool anche in odor di scioglimento.
L’album è strutturato in due parti: il primo lato, per volere di Lennon, comprende brani a sé stanti; la seconda facciata, su ispirazione di McCartney, è strutturata secondo una sorta di ‘suite’.

In ABBEY ROAD i tre compositori dei Beatles sono ancora al meglio: Harrison è in bella mostra con le splendide “Something” e “Here comes the sun”, Lennon con un grandioso brano epocale come “Come together”, il maestoso blues “I want you” e il meraviglioso corale di “Because” (che altro non è se non la “Sonata al chiaro di luna” di Beethoven suonata alla rovescia!), McCartney con le fresche e piacevoli “Oh! darling”, “You never give me your money” e “She came in through the bathroom window”.
La vera conclusione dell’album (a parte i 23 secondi di ‘finger-picking’ di “Her Majesty”) è affidata a “The end”, al cui eloquentissimo titolo è inutile aggiungere altro.

Come la copertina di SGT. PEPPER, anche quella di ABBEY ROAD, con i quattro che attraversano la strada di fronte agli omonimi studi, è diventata un’icona del rock.
Ma i Beatles ormai non ci sono più: ognuno dei quattro ha in preparazione un album solista e ognuno dei quattro, per un motivo o per l’altro, ritiene l’esperienza conclusa e non per propria colpa.

Però rimangono ancora i brani inediti delle sessions del progetto “Get back” di inizio ’69: e così, nel maggio del ’70, esce l’ultimo album (in ordine di tempo) dei Beatles, prodotto da Phil Spector.

LET IT BE è un album raffazzonato e deludente, poiché assembla, in un estremo tentativo di sfruttare commercialmente la fama del complesso, le canzoni di quelle sessions con brani vecchi e addirittura non finiti.

Risaltano, comunque, la lennoniana “Across the universe” (del ’68, incisa a suo tempo su un album di artisti vari prodotto per raccogliere fondi a favore del WWF – Bowie ne fornirà una magnifica versione sul suo album “Young americans” del ’75), “I me mine” di Harrison e le ultime tre perle di McCartney, “Let it be”, “The long and winding road” e lo sfavillante rock di “Get back”.

La rapida, ma intensissima, parabola dei Beatles ha segnato in maniera indelebile i percorsi e le traiettorie che il rock, diventato ormai grande, ha saputo disegnare da allora fino ad oggi nel campo della composizione come in quello della produzione (inteso nella doppia accezione di lavoro di studio e di vendita del prodotto), nel campo della moda mediatica come in quello dei rapporti col pubblico.

I Beatles, ripeto, si possono amare o non amare, non è questa la vera questione: quello che è certo è che non si può disconoscere il loro immenso valore e lo straordinario contributo da essi dato alla musica che più amiamo.

E oggi che due di loro ci hanno lasciato, si avverte lo stesso velo di tristezza che si prova al pensiero di un amico più grande che non c’è più.