Salif Keita – Parte 5 – Il ritorno a casa

Salif Keita e Giulio Mario Rampelli

Erano passati oltre 20 anni da quando Salif Keita risiedeva fuori dal Mali: prima ad Abidjan, con gli Ambassadeurs, poi a Parigi. Quel lungo esilio volontario, pur costellato da numerosi ritorni in patria, era servito a Salif per sviluppare e far maturare il suo straordinario linguaggio musicale, rendendolo capace di esprimersi ben al di là dei vincoli imposti dalla tradizione. In Francia e in America aveva collaborato con musicisti di ogni provenienza, dal jazz al rock alla musica elettronica alla Salsa. Papa, il suo disco del 1999, con la sua oscura inquietitudine, era stato un punto di rottura che portava in sé, al tempo stesso, i semi del suo ritorno.

Il ritorno a casa

Nel 2001 Salif Keita apre un Night Club a Bamako, il Moffou, dal nome di un piccolo flauto tradizionale. Anche il suo primo disco nel nuovo millennio si intitola Moffou, come il suo locale, un disco che lascia di stucco tutti quanti.

Sin dalle prime note della prima traccia si percepisce che Moffou è senz’altro il disco più bello mai registrato dall’artista albino fino a quel momento. Dalla musica è sparita completamente l’elettronica, e in buona parte sono spariti gli strumenti amplificati come le tastiere e la chitarra elettrica. Un disco acustico insomma, dal suono inconfondibilmente tradizionale, ma al tempo stesso moderno.

Moffou (2002, Universal Music, 016 906-2)

Yamore
Iniagige
Madan
Katolon
Souvent
Moussoulou
Baba
Ananaming
Koukou
Here

Ma c’è di più: tre dei dieci brani del disco sono cantati e accompagnati alla chitarra acustica dal solo Salif Keita. Una novità assoluta, in cui l’artista si offre per la prima volta semplicemente solo, e nudo. I tre brani sono Iniagige, pubblicato già in L’Enfant Lion, Souvent e la splendida Ananaming, ripresa da Papa.

Negli altri brani è presente prima di tutto Manfila Kante, che è anche il principale arrangiatore del disco. A lui si affiancano le chitarre di Djeli Moussa Kouyate, Bruno Lasnier e del virtuoso Jean-Louis Solans, che suona anche il liuto, il camele n’goni del grande Harouna Samake, musicista del Wassoulou, lo n’goni di Sayon Sissoko e il basso di Guy N’Sangue. La sezione delle percussioni comprende il solito Souleymane Doumbia, Mamadou Kone, Adama Kouyate e Drissa Bakayoko alle percussioni tradizionali quali il djembe e il calabash, oltre all’estroso Mino Cinelu, uno dei collaboratori principali della nuova fase. Il coro è invece composto da Nayanka Bell, Oliza e Hadja Kouyate. Infine, troviamo Benoit Urban alla fisarmonica, Arnaud Devos alla marimba, David Aubaile al flauto peul, Mehdi Addad al liuto arabo.

Yamore, il brano con cui si apre il disco, è un incredibile duetto vocale con la regina della morna capoverdina, Cesaria Evora. Il brano è un mid-tempo davvero splendido, con un’atmosfera dominata dalla fisarmonica e dalle piccole percussioni, a cavallo tra il Mali e le magie lusofone. Da solo varrebbe l’acquisto del disco, ma a ruota è seguito, dopo Iniagige, da un’altra gemma, Madan, che nella sua famosa versione remixata da Martin Solveig (con l’elettronica e le drum-machine) ha sfondato nelle classifiche dance internazionali, e il cui video è stato una costante di MTV per mesi. Inutile dire che la versione originale è assai più bella, con un ritmo ugualmente feroce, il beat della grancassa sostituito dal calabash e gli effetti speciali realizzati interamente “a voce”, come il crescendo del coro all’inizio del pezzo.

Il disco continua sfoderando uno dietro l’altro altri otto capolavori, tra cui non si può non citare Moussoulou, che in malinke vuol dire donne, un brano classico e moderno dalla melodia stellare e dall’andamento leggero come una piuma, che lascia incantati. Il risultato è che anche i critici più scettici gridano al capolavoro. L’unico dubbio riguarda proprio la voce di Salif Keita, che sembra aver perso la nitidezza e la potenza dei lavori precedenti. E’ soltanto un dubbio, che non può non attanagliare però il cuore dei fans: il principe sta perdendo la voce o l’effetto è semplicemente voluto per avvicinare la musica ai suoi ascoltatori?

Moffou è ancora registrato e mixato a Parigi, con una qualità audio davvero impeccabile, ma la musica è indiscutibilmente tornata a Bamako. Le foto interne alla copertina parlano sempre più chiaro: Salif Keita che si fa intrecciare i capelli, che saluta i pescatori su una barca in riva al Niger, che suona con gli Ambassadeurs du Motel de Bamako.

Il Remix di Solveig del brano Madan non è l’unico derivato da Moffou. L’anno successivo esce infatti un intero disco, intitolato Remixes from Moffou (nel quale non troverete il remix di Solveig), in cui i brani acustici originali vengono letteralmente stravolti dai principali DJ parigini e londinesi, veri guru della nuova house music come Frederic Galliano e Osunlade. Il disco è curioso, ma non ha nulla a che fare con la nuova musica di Salif Keita. Sembra quasi come se l’artista maliano abbia affidato ad altri uno dei suoi possibili percorsi evolutivi.

Remixes From Moffou (2004, Universal Music, 981 510-4)

Madan (Remixed by Gekko)
Moussoulou (Remixed by Ark)
Here (Remixed by Frederic Galliano)
Madan ((Remixed by Tim Paris)
Moussoulou (Remixed by Osunlade)
Madan (Remixed byThe Boldz)
Yamore (Remixed by Luciano)
Souvent (Remixed by B Alone)
Moussoulou (Remixed by Charles Webster)
Ana Na Ming (Remixed by Le Funk Mob)
Here (Remixed by Doctor L)

Durante gli anni successivi Salif Keita continua a dividersi tra Bamako e Parigi. Suona dal vivo e partecipa a qualche progetto dei suoi amici africani residenti a Parigi, tra cui il bassista cameroonense Richard Bona, con il quale canta lo splendido Kalabancoro sull’album Munia. Nel 2003 esce il disco Live Elisée Mont Martre (2003, Universal Music, 067005-0), la registrazione in CD e DVD di un concerto dal vivo del giugno del 2002, al quale Salif Keita partecipa con un paio di brani, assieme ad alcuni dei musicisti con i quali si accompagnava in quel periodo: Mino Cinelu, Lokua Kanza, Daniel Mille, Natalia M. King e altri.

Si intuisce chiaramente che Salif Keita sta attraversando un momento straordinariamente fecondo, dal quale verranno fuori nuove sorprese. Nell’ottobre di quest’anno, tre anni dopo Moffou, finalmente esce l’attesissimo nuovo album. Tutti coloro che si aspettavano un nuovo disco tra l’acustico e il tradizionale non rimarranno delusi.

M’bemba è un nuovo capolavoro. .Salif Keita stesso lo definirà “un disco di musica moderna suonata con strumenti tradizionali”. Ma la novità principale è forse il fatto che, per la prima volta dopo 25 anni, il principe Mandengue registra e mixa il suo album interamente a Bamako, nel suo stesso studio di registrazione che sorge sulle rive del Niger, affidando gli arrangiamenti a Manfila Kante e Mino Cinelu.

M’Bemba (2005, Universal Record)

Bobo
Laban
Calculer
Dery
Ladji
Kamouke
Yambo
Tu vas me manquer
M’Bemba
Moriba

Alla lista dei djeli presenti in Moffou, che comprendeva, oltre ai fedelissimi, Toumani Diabate e Djeli Moussa Kouyate., si aggiungono in M’Bemba gli straordinari Mama Sissoko allo n’goni e Lansana Diabate al balafon. L’intero gruppo dei djeli suona nel brano che dà il titolo al disco, dedicato agli antenati e a Soundiata Keita. Il brano, in cui è soprattutto la kora di Toumani ad impreziosire l’accompagnamento, ha tutto il sapore degli antichi canti epici dei griot mandengue, anche se cantato in uno stile più moderno e personale. Altri capolavori sono Laban, con i suoi cambi di atmosfera, e Dery, una piccola gemma di musica malinke in cui riecheggiano le atmosfere dei vecchi Ambassadeurs. Kamouke e Yambo sono due brani ballabili sostenuti soprattutto dal camele n’goni di Harouna Samake, mentre Ladji è un pezzo rock a cui partecipa il cantante reggae Buju Banton.

La musica è tersa, e riassume la storia artistica di Salif Keita, dalle radici tradizionali ai sapori latino-americani, dal jazz al rock. Come al solito si impongono per bellezza il coro femminile, composto questa volta da ben nove cantanti, e la chitarra di Manfila Kante, riconoscibile anche dopo il primo arpeggio. Ma ciò che più colpisce è la voce dello stesso Salif Keita, che fuga qualsiasi dubbio si fosse insinuato dopo l’ascolto di Moffou. Una voce ancora capace dell’intensità del tuono, come un tempo, ma che ha anche imparato ad esprimersi sottovoce, delicatamente, e che a volte quasi si rompe, forse intenzionalmente, per avvicinarsi meglio all’anima di chi ascolta.

M’Bemba è un disco bellissimo, che va ascoltato molte volte per comprenderne le innumerevoli sfumature. Ascoltandolo, e riandando poi con l’attenzione al lungo percorso artistico del cantate albino, ci si rende conto come le sue ricerche, i suoi esperimenti, i suoi imprevedibili cambi di rotta, avevano tutti un unico filo conduttore, che lo riportava continuamente alle sue origini. La mia impressione è che con M’Bemba tutto torna, e che, grazie ad esso, si possa rileggere l’intera produzione musicale di Salif Keita come espressione pura della cultura mandengue, un oceano dalle cui acque continuano ad emergere incredibili tesori.

L’oggi a cui siamo arrivati è anche la momentanea conclusione di questa storia. Salif Keita è tornato a casa a testa alta, e con l’avanzare del processo di riconciliazione tra l’artista e la sua terra è realistico aspettarsi nuovi incredibili capolavori.

Per chi volesse avvicinarsi oggi all’incredibile arte di Salif Keita suggerisco di cominciare dagli ultimi due dischi, da Moffou e M’Bemba, magari affiancandogli semplicemente un riassunto della sua intera produzione precedente, come ad esempio la raccolta The Mansa of Mali … A Retrospective. E’ sufficiente, perché mi sembra lecito pensare che la parte più bella della storia è quella che deve ancora essere raccontata, e la musica migliore sarà quella che verrà da adesso in poi.