Khompa “The shape of drums to come”, recensione

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I tempi erano maturi. Dopo sessioni musicali eterogenee ed accrescitive e dopo una lunga esperienza con gli Stearica, Khompa, nom de plume di Davide Compagnoni, giunge a dare luce ad un riuscito connubio tra musica e tecnologia, attraverso la voce di The shape of drums to come, debutto solista dell’abile drummer.
Il disco, promosso da Fleisch Agency e licenziato dalla londinese Monotreme Records, rappresenta una ragionata unione in grado di colloquiare apertamente con la sinteticità dell’elettronica, attraverso reminiscenze post punk, noise, sperimentalismi e ritmiche non sempre easy.

L’anima oscura del disco, straordinariamente ricco di emozioni portanti, sembra basarsi sulla filosofia del “no click, no loops, no backing tracks”, ponendosi su di un piano strutturale in grado di dare alla luce una musicalità da ascoltare, vivere e vedere.

A fungere da fil rouge è semplicemente un groove coerente, ideale nel mescolare impressioni diversificate che modulano un inatteso mash up cromatico, posto tra sintomi industriali, nordica tradizione popolare e ricami tribali. Un irruento collidere di suoni liberi al servizio di un epocale libertà, enunciata da Nettle empire< /i> che appare sintomatica estremità di un innalzamento emozionale in grado di magnetizzare l’astante mediante gli spigoli di Religion. Specchio di ardori filmici, la traccia in questione mostra le sue ombre sintetiche, definendo i propri contorni per mezzo di strutturazioni sonore che trovano nella brevità la propria linfa vitale.

Il disco mostra sin dal principio una straordinarietà visionaria (Shape), per certi versi accostabile al mondo prog, che muta (però) forma in maniera diretta con Louder, aurea vintage ed essenza destabilizzante di un mondo folle, spinto da metodiche angolari, tradotte visivamente dall’impeccabile art work di Steuso, bravo nel riprodurre i movimenti ossessivi di una partitura audace, attraverso linee isteriche e ridondanti, modulate su colorismi oscuri che vivono attorno a distorsioni oniriche.

Il sentiero, aspro e privo di reali confini, mostra poi il proprio lato narrativo con Upside-down worldin cui la voce di Taigen Kawabe taglia imprecisi cerchi sonori attraverso sezioni Ratm, qui deformate da spirali evocative e da un uso disarmonico dell’idioma orientale. Una ragionata destrutturazione dell’ovvio che si compie nel “normalizzato” intro di Make the operator more productive, alimentata da intuizioni anni’80 e rimandi ombrosi alle ultime meditazioni carpenteriane.

A chiudere il disco sono infine le modulazioni grezze di Dac e la conclusiva Wrong time wrong place, gioco terminale in cui l’espressività rumorista non cede all’improvvisazione pura, ma giunge a mostrare gli angoli acuti di una trepidante narrazione in grado di raccontare un mondo inquieto e ricco di vertici tetri.

Un disco ipnotico e claustrofobico, pronto a trovare il proprio ego dietro la necessità eplorativa.