Porto Live Metal Fest 2019. Recensione

Sono le 00.40;  in una collocazione temporale piuttosto strana rincaso dopo una grande serata metal. Infatti, negli ultimi mesi, per assistere a live sui generis ho dovuto varcare i confini della mia regione, macinando molti chilometri… ritornando, così, tra le mie mura non prima dell’albeggiare. “Tornare a casa presto”…una sensazione destabilizzante, che mi ha riempito di orgoglio campanilistico: finalmente Genova protagonista.

Da amante delle estremità metal e orfano del fu Metal Valley Open Air,torno a scrivere di un festival ligure che, a mio modesto parere, non solo deve trovare continuità, ma dovrebbe riuscire a diventare una realtà consolidata e permanente. Pur consapevole delle difficoltà organizzative, mi chiedo quando utopico possa apparire il pensare di costruire un polo metal del Nord-Ovest, seguendo l’ottimo esempio fornito da Live music club, Dagda e Campus Industry music.

Lascio la mia utopia a Trevor e Black Widow Records e torno ad occuparmi di urgenza narrativa: raccontare il Porto Live Metal Fest 2019.

 

 

A dare inizio alle danze macabre sono i giovanissimi No regrets band emergente, promettente, ma ancora inesperta. Un ensemble interessante, che appare intento a voler definire una sincrasi tra elementi classicheggianti e heavy sound, mostrandosi così delineati da un suono avvolgente che ancora necessità di perfezionamenti e giuste calibrazioni. Il live incuriosisce e avvolge i pochi presenti del tardo pomeriggio, ma a differenza di altri generi musicali, gli amanti del metal ascoltano (sempre) incuriositi, spinti dalla tradizionale voglia di estendere i propri orizzonti scoprendo nuove sonorità. Così accade anche durante la performance dei Chaos Factory, cinque sognatori dediti ad un metal ipo-sinfonico da cui emergono sensazioni Tolkeniane pronte a disegnare sentieri Quorthon, stilemi power e linee NWOBHM, tanto è vero che i buoni cromatismi vocali e l’egocentrismo artistico di Francesco Vadori mi ha riportato alla mente il Bruce Dickinson di Head on.

 

 

(Forse) penalizzati da una sezione ritmica che mostra il suo appeal solo durante i brani finali, la band riesce a tenere molto bene il palcom anche grazie ad una sei corde interessante, soprattutto in brani piacevolmente avvolgenti come Running wild e la lunga Horizon, entrambe estratte del loro buon debutto discografico.

 

Mentre il meet ‘n’greet di Steve Sylvester si protrae, dal palco iniziano ad apparire fumi ed inquietanti figuri: i Damnation Gallery di cui mi sono invaghito. Molto più performanti rispetto alla già ottima presa su vinile, la band genovese si offre al proprio pubblico attraverso un teatrale e granguignolesco impatto visivo, fornendo una vera e propria scenografia funzionale (riportata con accortezza anche sul merchandising). Idee chiare, look inquieto e credibile, sguardi allucinati, maschere e costumi orrorifici che raccolgono con immediatezza i consensi dei convenuti, riuscendo a raccontare un gustoso horror rock,  da cui emergono gli stilismi kubrickiani di Lord Edgard e le striature Silent hill di Low, spalle portanti di Scarlet, voce femminea che tra screaming e poco growl ha reso notevoli brani come Evil suprime e Damnation GAllery.

 

 

L’oscurità cala poi in favore dei Black Oath auto definiti portatori di Cursed Rock, disegnato da spazi doom, riffing corposi e armonie a tratti ipnotiche. Un groove oscuro e nereggiante che, rafforzato da una set list costruita attorno ai quattro full lenght della band, appare pronto a marchiare il territorio con influssi disparati, che dal prog arrivano al classic rock passando da striature black’n’goth. Il quartetto, attivo dal 2006, definisce movimenti in battere, in cui gli intrecci chitarristici si mostrano in overlay rispetto agli avvolgenti pattern, qui scarificati da una ciclotimica andatura osservativa e destabilizzante… quanto la voce pulita di A.th

 

 

Il live, continuando a mostrare un’insolita mescolanza di generi, palesa il suo lato più estremo con gli Antropofagus, dediti ad un death metal posto ai bordi del brutal. La band, orgogliosamente raccolta sotto l’egida della mitologica Comatose Music, mostra una caratura espressiva di ottimo livello. L’impatto sonoro della serata inizia a decollare anche grazie ad una tecnica musicale precisa e veloce. Gli arditi passaggi di Jacopo Rossi e Meatgrinder, sin dalle prime battute, appaiono la naturale prosecuzione espressiva dei battiti profondi inferti da Davide Billia. La semplicità scenico esecutiva, che mi ha ricordato le performance live dei Cannibal Corpse, mi ha sorpreso quando Tya si è mostrato pronto a raccontare e raccontarsi uscendo dai dogmi metal, subito ricostruiti attorno a brani impeccabili come Architecture of lust.

 

 

Lasciati i territori del growling profondo, ecco apparire sul palcoscenico tre enormi crocifissi a base dei tre microfoni posti simmetricamente rispetto al fronte del palco. L’attesa sale e il pit inizia a rumoreggiare nell’attesa di Steve Sylvester ed i suoi rinnovati Death SS. Le ombre della notte aiutano i primi giochi di luce, quando alcune inquietanti figure, che sembrano uscite da Nun, posizionano un feretro al centro dello stage. Le note di Ave Satani iniziano a smuovere le emozioni, che trovano il primo apice sonoro in Horrible Eyes.

Infatti, sin dalle prime battute, si ha l’idea di un frontman in piena forma, immerso nel contesto teatrale attraverso silenti gestualità. Le parole tra le tracce della scaletta, infatti, non vengono contemplate per evitare di interrompere il flusso narrativo definito da teatralità, costumi e liturgie sceniche, in grado di dare continuità all’age d’ore della band. Steve Sylvester, questa sera non troppo lontano dall’estetica aliena di  Frank-N-Furter, gioca con il suo adorante pubblico chiamato all’interazione con Where have you gone?

Il live sostenuto da un buon impianto audio prosegue con interludi scenici in cui due splendide e discinte fanciulle danzano e recitando con il membro fondatore della band (da sempre di culto). Così tra inquiete danze scarlatte, suore peccaminose e danzatrici luciferine, si giunge ad un doppio colpo, in grado di avvicinare  due estremi: Terror, traccia del mitologico …in death of Steve Sylvester (1988) e Rock’n’roll Armageddon, titletrack dell’omonio album (2018).

 

La verve espressiva e spettacolare della band si abbellisce attraverso trovate sceniche in grado di dare visività all’horror music cavalcato dalla band. Così croci incendiate, fuochi d’artificio, fumi nebulari ed interludi, fungono da valore aggiunto rispetto ad una band in grado di percorrere senza soluzione di continuità una storia unica, in grado di restituirci tracce memorabili come Panic e Hi tech Jesus, durante la quale il parterre improvvisa un giocoso pogo circolare.

Poco dopo la mezzanotte sfuggono gli ultimi aliti dei “demoni metallici” pronti a “Cambiare il corso del tempo… e lasciare che il metal cresca”, cosa da oggi possibile anche nella Superba, grazie a Nadir Music, Black widow Records, Cornucopia Live e Truck me Hard.