Bobo Rondelli “Cuore libero”, recensione

Ormai (ed è un ormai che dura da molto tempo) in mondo degli Ottavo padiglione è lontano…forse troppo lontano. L’arte di Bobo Rondelli, infatti, da qualche anno ha intrapreso una via divergente, giungendo ad un puro cantautorato, che oggi sembra non voler lasciare ricordi di quegli anni ‘90. Pur ammettendo di sentire la nostalgia per quella allora, non posso negare l’interesse osservativo per il Bobo Rondelli di oggi, anche perché, permettetemi di dire, mi appare da tempo uno dei più interessanti cantautori contemporanei.

 

 

A dare battesimo all’ultima fatica del cantautore livornese sono i sentori anni ‘60 de Il punto immenso, sussurrato cantico d’amore, in cui i delicati cori si uniscono ad una sei corde narrativa, pronta lasciare il posto al fingerpick di Babbo Apache. La composizione, piacevolmente indie-folk, continua a narrare di sentimenti, questa volta inquadrando il rapporto padre e figlio, descritto dalle leggere gocce bianconere di Claudio Laucci.  Proprio il poliedrico musicista mostra un ispirata verve compositiva sul silente candore esercitato da L’angelo e il lupo, da cui emergono le dolci sensazioni di archi.

Sulla stessa scia ritroviamo poi Falso Chagall che, forse complice il violino di Steve Lunardi, mi è parsa come un piccolo straordinario gioiello. Una partitura nuvolare ed emozionale, posata su di un arrangiamento straordinario.

 

 

 

Nascosto dietro ad un packaging in digipack, l’album, spinto delle foto di Claudio Caprai, gioca poi con la poesia de Il più bel teatro e la magia di Sabrina, in grado di offrire uno sguardo verso ieri. Il climax espressivo sembra però raggiungersi con la titletrack, un orizzonte nostalgico e melanconico, in cui gli occhi si pongono sul fulcro emotivo, in grado di accompagnarci in un “viaggio finalmente libero”, un viaggio che in questa nuova release pare voler volgere all’indietro, in un tempo passato, tra melodie, memorie e ricordi, motori attivi di Cos’hai da guardare, romanzo pubblicato da Rondelli nel 2019.

Tra le tracce  più interessanti, a mio avviso, però dovrebbe essere segnalata Strada a senso inutile, in cui i sentori De Gregori si mescolano con un’aurea Bob Dylan, per sfociare poi verso un buon finale, dettato dal colore ponderato di Grazie del male, aperta e strutturata composizione dai giochi acustici funzionali alla narrazione.

Il disco, che trova in Se vuoi andare l’atto conclusivo, si presenta pertanto con le vesti leggere di un passato sbiadito, per altro bel metaforizzato della cover art e da quella rara attenzione per le emozioni, che forse oggi non proviamo più.