Paul Man: un esordio troppo floydiano

Per essere un chitarrista che si scopre artista e compositore alla soglia dei 50 anni direi che Paolo Mancini dimostra una pulizia e una semplicità estetica assai interessante, come anche una bella scrittura lineare, coerente anche dentro le tante volute e i cambi di direzione alcune dei quali davvero poco prevedibili… si sa, e si sente: frutto anche di un background di ascolti pregiati che così, al lume di naso e per puro istinto, punteremmo nella direzione verso cui campeggiano i nomi di Peter Gabriel, Bowie, Pink Floyd, Paul Weller e Dire Straits (e compagnia cantando). È mescolando tutto questo che ci troviamo dentro un disco rigorosamente live che segna l’esordio di Paul Man, a questo punto artista, compositore e cantautore toscano, classe ’67. Lavoro dal titolo “It’s Never Too Late” (altro titolo penso non potesse avere) che in rete troviamo nella sua unica versione live…

Dobbiamo doverosamente mettere da parte alcune cose che ci sentiamo ci bocciare in prima istanza: la pronuncia inglese davvero troppo scolastica per un progetto che cerca una collocazione internazionale o i numerosi e troppo sfacciati richiami floydiani e i riverberi di voce che di tanto in tanto ci riconducono a quel certo Mark Knopfler e compagni. Insomma eccezion fatta per queste “piccole” cose qui, il resto del disco davvero si poteva giocare carte assai interessanti e che però, dunque, finisce per cadere dentro un calderone di tanti progetti che richiamano stilemi assai troppo utilizzati. E li richiama con troppa poca ricerca personale, secondo noi. C’è personalità sicuramente, c’è l’idea chiara del tutto, della sua visione, del suo panorama sonoro: ci sono strumenti e arrangiamenti misurati con estrema maturità… e su tutte forse “Five Nights” è il momento di maggiore unicità e individualità del disco, dove adoro questa linea di sax molto cantautorale prima di aprirsi e ricadere di nuovo nel già sentito con le timbriche alte ben graffiate a mestiere. E le sue linee ricche di glamour in “What Do You Need My Friend?” sembrano richiamare un certo Sting se non fosse che la struttura cerca gli stop sulla settima di quella “Money” davvero troppo famosa. Paul Man non fa troppi sforzi per allontanarsi da questo campo minato e purtroppo si trova inevitabilmente a misurarsi con quel certo modo alla Gilmour di pensare alla chitarra e lo si vede anche nella diteggiatura, nella tessitura e nella scelta delle note, nelle loro progressioni, negli stacchi di tutta la melodia… un paragone difficile da reggere se non impossibile ahimè, paragone dal quale poi non riesco a prescindere visto che è li che la mente viene portata quasi con arroganza da troppi, davvero troppi dettagli. Si senta proprio la intro di “80’s” tra giro di basso, chitarra e prime parole adagiate sulla melodia… si senta la chiusa del disco affidata ad una melodrammatica “Beautiful Brown Eyes”, si ascolti come la voce (per dirne una) sta comoda e a suo agio proprio in questa zona del rock psichedelico: di cuore, visto il disegno del tutto, avrei disegnato meglio il tutto per prendere certe distanze. Se fosse stato fatto un tale lavoro, se avesse voluto ricercare una personalità maggiore, visti i musicisti, la qualità del suono e del mestiere in gioco, siamo sicuri che questo disco avrebbe avuto ben altro spessore e riuscita.