Storia del Jazz – Capitolo 11 – Herbie Hancock – Afroamerica Funky

Herbie Hancock

La musica in sé non ha valore. Ciò che rende la musica valida è l’effetto positivo sulle persone che vanno ad ascoltarla.

A pronunciarsi così è un artista che, da anni, rappresenta una delle vette più alte della musica afroamericana e, anzi, ne incarna lo spirito più profondo in America: Herbie Hancock. Come i geniali musicisti fin qui studiati anche Hancock manifesta un costante interesse per un quid profondamente legato all’Africa e alla sua precipua tradizione all’approccio musicale. Infatti, sia il suo originale pianismo, sia le sue peculiarità compositive, sia il suo porsi quasi esclusivamente, a volte, come accompagnatore, sia la sua ricerca spirituale, sia, ancora, le sue attitudini anche a generi collaterali al jazz come la musica soul e funky, ne fanno un creatore a tutto tondo, onestamente orientato a lasciare un segno indelebile nella storia della musica moderna.

Herbert Jeffrey Hancock nasce a Chicago nel 1940; le origini borghesi della sua famiglia ne fanno un ragazzo ben educato e, seppure appassionato studente di musica, certamente lontano anni luce dal jazz, considerato ancora una provocatoria e inutilmente dissacrante musica.

Con gli anni le sue idee – fortunatamente!- cambiano e il giovane si avvicina al jazz seguendo il cristallino stile a block chords di George Shearing e, più oltre, le sublimi linee di contrappunto e le complesse trame improvvisative di Bill Evans. Solo molti anni più tardi, quando sarà già un richiesto sideman, Hancock scoprirà pianisti neri che lo segneranno indelebilmente: fra tutti, Winton Kelly e Oscar Peterson. Nel 1961 conosce Donald Byrd, che gli apre anche il mondo della musica classica contemporanea, avendo, il trombettista, studiato con la celebre didatta Nadia Boulanger, vera ninfa Egeria per tutti i grandi musicisti (compositori e non) del primo Novecento. Questa amicizia, per uno studioso come si rivelerà essere Herbie, sarà fondamentale: egli affronta perciò le partiture di Varèse, Villa-Lobos, Strawinskij, Bartok. A pensarci bene, tutto questo e altro ancora è presente nel suo modo di fare musica. L’aspetto che ci colpisce di più in lui è certamente quello solistico e perciò vorremmo commentare alcune sue fatiche da sideman per due grandi leader: il primo è con il quintetto di Miles Davis ed esattamente il concerto registrato nell’Lp Four & More e il secondo per il disco Speak No Evil a nome di Wayne Shorter, entrambi del 1964. Della prima incisione vorremmo soffermarci sul brano There is no greater love, noto standard che permette al quintetto di spaziare su sonorità già all’epoca innovative, ma sempre con un occhio alla grande tradizione del blues. Non dimentichiamo poi, che in quegli anni il giovanissimo pianista conoscerà un altro astro del jazz a venire, Tony Williams, il quale lo introdurrà

alla poliritmia africana e ai ritmi indiani, spalancandogli una nuova concezione del ritmo che superava le tradizionali relazioni tra forma, fraseggio e struttura metrica *.

Il brano si presta immediatamente ad una rilettura di sapore “blue”. Basti infatti pensare al fatto che il primo accordo del pezzo è immediatamente sostituito con il medesimo accordo in qualità di dominante (si ha perciò Bb7 in luogo del canonico Bbmaj7). Inutile sottolineare la grandezza di Miles nell’esposizione tematica e nel suo assolo, in cui Hancock si mette in luce anche grazie ad un suo personale modo di accompagnare:
suona molto meno di quanto un pianista che accompagna ci si aspetti che faccia, buttando dentro macchie accordali dissonanti a intervalli irregolari e punteggiando i solisti come un percussionista, anziché fornire loro un commento continuo, come hanno fatto i pianisti non solo nel bop, ma anche in stili più vecchi.**

Ci preme invece addentrarci nella fitta trama sonora costruita, ad opera d’arte, da Hancock. Egli suona due chorus e mezzo (dal bridge poi, Miles rientra col tema finale), ma l’intero solo sembra volto a far immaginare una organica evoluzione di pensiero, dato che si parte da un primo giro in cui predomina quel sapore bluesy di cui accennavamo in precedenza, il quale viene lentamente sostituito da un’apertura coraggiosa, e per niente prevedibile, su un profilo melodico spinoso e azzardato per i tempi, che si inerpica su cime musicali che hanno sempre meno a che fare -almeno apparentemente e se si pensa ai tradizionali canoni improvvisativi – con l’armonia sottostante. E’ proprio nell’analisi di questo secondo chorus che vorremmo addentrarci. Il primo fattore che emerge è la disinvolta indipendenza ritmica e, appunto, la modernità di certe arditezze del fraseggio. Il secondo giro, dicevamo, inizia e sarà caratterizzato da un fluente scorrere di terzine di crome, che condurranno l’improvvisazione verso il definitivo raddoppio in sedicesimi. Dal punto di vista delle tensioni possiamo notare che Hancock, innanzitutto, apre con una serie di intevalli melodici di quinta e quarta e possiamo notare come sull’accordo di Bb iniziale egli esegua un arpeggio di triade “vuota” (cioè senza la terza) su Bb, E e G; cioè una serie di terze minori discendenti alla maniera del Coltrane di Giant steps! Del resto, il musicista di Chicago fa sovente uso delle cosiddette strutture triadiche superiori (Upper Structures Triads, U.S.T.), cioè di triadi che, sovrapposte ad un’armonia sottostante, creano precise tensioni armoniche. A questo proposito lo stesso pianista ricorda: Per esempio, una triade maggiore di F# posta su una triade minore di E. Non sapevo che si potesse fare. Sul mio secondo album ho applicato queste scoperte in King Cobra***. Ciò è piuttosto evidente all’ottava battuta da noi riportata (la 40a dell’intero solo), in cui, all’accordo di F7 il pianista sovrappone le triadi di Db e B con quinta diminuita; oppure alla battuta 43 in cui al sottostante D7alt. si ascoltano le triadi di Dmin e E. Ancora, alla battuta successiva, su G7 serpeggia chiaramente la triade di Db.

Hancock non risparmia neanche l’uso di scale particolarmente pregnanti dal punto di vista tensivo, come la cosiddetta simmetrica diminuita “mezzo tono/tono” a misura 45 o la superlocria a battuta 55.

Ma è quanto mai interessante il ritmo adottato da Hancock: l’uso costante di terzine già di per sé conferisce una certa sinuosità al tutto, in più egli suole spezzare questa scorrevolezza con pause inusitate, come si evince da batt. 36 e seguenti:

Ciò ne fa già, a soli 24 anni, un vero master drummer, in grado di creare cesure ritmiche che lascino respiro alla frase e, nello stesso tempo, ne amplifichino l’interesse pulsivo. Del resto, in questo contesto Hancock potenziò le intuizioni ritmiche più originali; il gioco d’insieme e le iniziative di Williams fecero maturare il grande accompagnatore che era in lui: dialogando a vari livelli con ritmica e solista o inserendosi negli spazi vuoti, prese a lavorare su una complementarità dei ritmi squisitamente africana****.

Il solo successivo è su Fee-Fi-Fo-Fum di Wayne Shorter; è interamente intessuto di stilemi bluesy, volti a meglio valorizzare la complessa progressione armonica alla base del meraviglioso pezzo scritto dal sassofonista. Ancora una volta l’andamento terzinante del fraseggio (esemplificato in questo modo non tanto per fedeltà all’esecuzione, quanto per far meglio comprendere l’incedere blues col suo caratteristico back-beat), arricchito da figurazioni irregolari e soprattutto dai continui scarti metrici realizzati con un uso sapiente della pausa, dà origine a questo cammeo sonoro che prelude alle conquiste artistiche successive del nostro.

Qui [nell’intero disco di Shorter, n.d.r.] gli assoli di Hancock sembrano orientarsi più alla giustapposizione di blocchi di idee – ognuna della quali è sottoposta a ripetizione e piccole variazioni – che allo sviluppo. […] E va pure osservata la sorprendente intesa e la reciproca capacità di “incastrarsi” tra Hancock e il suo beniamino Elvin Jones*****.

Nel 1966 esce, per la Blue Note, un album dello stesso Hancock destinato ad avere un peso artistico invidiabile nella storia del jazz, si tratta di Maiden Voyage. In esso è contenuta una take che, assieme alla title track e al superbo The eye of the Hurricane, diverrà un vero e proprio standard, Dolphin dance. L’assolo eseguito dal pianista è uno degli esempi massimi di equilibrio formale e forza evocativa mai ascoltate prima. Dentro vi notiamo tutte le intuizioni fin qui esposte, con l’aggiunta di una presa di coscienza e una conseguente maturità che raramente verranno rintracciate in altri Lp. Ad un inizio, come è caratteristica del nostro, sobrio, fa seguito una maggiore apertura ritmica e armonica, stimolata anche dalle lunghe sezioni di pedale previste dalla composizione firmata da Hancock. Osserviamo infatti questa sequenza di brevi incisi melodici iterati sempre su tempi diversi. Tipico senso di poliritmia semplice, ma geniale e originale.

Poco oltre, notiamo come Hancock non si accontenti affatto di seguire pedissequamente il rigore metrico di una regolare scansione e ne approfitti per ergersi, quasi, al di sopra del ritmo stesso; il seguente è un chiaro esempio di ciò che Vincenzo Caporaletti chiama il Macro-tactus, una unità di misura ritmica assolutamente svincolata dai coercitivi lacci ritmici della convenzionale scrittura musicale occidentale:

Un altro esempio, in cui la frase sembra stringersi e poi distendersi, pur mantenendo un interiore beat, è il seguente:

Di nuovo affiora, in una nuova apertura audiotattile, la sovrastruttura metrica del Macro-tactus:

E’ questa una cellula melodico-ritmica il cui pattern cade, rispettivamente, sul 2° quarto, sul levare del 3°, sul 1°, sul levare del 2°, sul 4°, sul levare del 1°; si interrompe sul 3° probabilmente per una distrazione del pianista, che, comunque, continua il gioco delle imitazioni fino ad introdurre una nuova idea, stavolta basata su block chords.
Anche qui sono presenti interessanti sperimentazioni armoniche; un esempio per tutti il passaggio che sottoponiamo, in cui si notano chiaramente strutture triadiche sovrapposte ad un medesimo accordo, peraltro eseguito dalla sinistra con una triade anch’esso, ma di volta in volta alterata.

Veniamo ora al pezzo forse più celebre dell’Herbie Hancock di questi anni, Watermelon Man, prima traccia del fortunato disco Takin’ Off del 1962, inciso su Blue Note. Non ci dilungheremo su quello che è divenuto un vero e proprio pezzo-mito della storia di tutta la musica, ma vorremmo anzi parlare di quella versione altrettanto nota, ma posteriore di almeno undici anni e che troviamo incisa nell’album degli Head Hunters dal titolo omonimo.

In quegli anni Hancock sperimentava campionamenti e contaminazioni con le sonorità più diverse; a questo proposito dirà lui stesso: ho sempre tentato di mischiare l’estetica acustica e quella elettrica e ritengo che saperle usare entrambe sia utile ad aprire sempre più la mente. In realtà, a questa mia apertura ha contribuito non poco anche Miles Davis.******

Ecco allora prendere vita il progetto in questione che rielabora l’hit di dieci anni prima con una partitura ricca di richiami a sonorità tribali africane (da lì del resto, si è ripetuto più volte, proviene anche il groove funky di cui questo gruppo si fa latore). Il pezzo si apre con la notissima introduzione di Bill Summers con bottiglie di birra opportunamente accordate (o quasi, e nella nostra trascrizione – nel rigo più in alto- abbiamo appunto indicato le note crescenti con un +). Di questa introduzione ricorda ancora Zenni:

per l’apertura Summers ebbe la memorabile idea di imitare la polifonia a hoquetus dei pigmei dell’Africa centrale, semplicemente soffiando in bottiglie e flautini*******.

Gli strumenti si aggiungono poco a poco, creando una tessitura che difficilmente nasconde una inebriante atmosfera da giungla. Sotto al primo rigo troviamo un flauto (Bennie Maupin), poi un primo sintetizzatore, il basso elettrico (Paul Jackson), la batteria (Harvey Mason) e un secondo campionatore che Hancock ha oculatamente “scordato” per adeguarlo al clima “afrocentrico” bene in evidenza. La nostra trascrizione si riferisce al momento in cui tutti questi strumenti suonano assieme.

A questo punto merita una menzione a parte la serie di esperimenti che il nostro ha effettuato col grande musicista africano Foday Musa Suso. Proprio a testimoniare lo stretto legame tra l’Africa di quest’ultimo e l’afroamerica di Hancock, nascono due dischi interessantissimi, Sound-System e Village Life, entrambi del 1984. Ha sottolineato Luigi Onori:

il gambiano Foday Musa Suso e l’afroamericano Herbie Hancock (chissà da quale gente provenivano gli antenati del geniale pianista…) si accettano e si riconoscono, suonano insieme, creano un linguaggio nuovo che amalgama quello tradizionale dell’Africa occidentale con quanto questo patrimonio ha creato al di là dell’Oceano Atlantico in secoli di cattività e di tormentata integrazione: jazz, rock, tecnologia sonora che al suo apice riesce a superare intervalli temperati occidentali e a tornare a quelli naturali.********

Sappiamo che Suso, malgrado la sua particolare attitudine musicale, volta a perpetuare le tradizioni musicali millenarie della sua terra, non ha mai disdegnato comparire -e suonare!- con musicisti stranieri appartenenti alle correnti più diverse. Le sue collaborazioni coinvolgono infatti, tra gli altri, il Kronos Quartet, Jack de Jonnette, Philip Glass, Pharoah Sanders e, naturalmente Hancock. Virtuoso della kora a 21 corde, è apprezzato sia per le sue capacità strumentali, che per quelle canore e di percussionista. Inoltre, in tempi più recenti, si esibisce anche con il gravikord, ovvero una kora ellettrificata, di cui è uno dei primi e pochi esecutori al mondo. Nel primo dei due dischi Columbia citati si può notare, già ad un primo ascolto, la coraggiosissima prova del band-leader di accostare le più sofisticate tecnologie sonore dell’epoca (egli suona di tutto dal Rodhes al DX7, al memorymoog!) con la voce strumentale di uno dei depositari della più antica tradizione musicale africana, quella dei cantori, i cosiddetti griot. In specifico, in due traccie abbiamo notato che il contrasto tra antico e moderno, tra tradizione e avanguardia, o, se si preferisce, tra occidente e resto del mondo, risulta di sicura presa ad un ascolto mosso, principalmente, dalla curiosità. Il brano Junku, firmato anche dallo stesso Suso, prevede alcuni obbligato che il musicista gambiano itera adeguandosi perfettamente allo spirito quasi pischedelico, che si sprigiona in tutta questa musica. Di seguito trascriviamo ciò che avviene a 1’00” e a 1’24”:

[Le note indicate con il segno diacritico sono da intendersi non perfettamente intonate].

Nella title track, invece Suso si distingue per un vero e proprio assolo, a 3’10”, anche se breve, ma pur sempre suggestivo:

L’utilizzo di scale pentatoniche (in questo caso di Re su un’armonia di E) conferisce il giusto approccio ad una musica, quella elettronica eseguita da un jazzista, con quella etnica di Suso e cioè un comune sostrato modale.

Certo, nell’insieme, il progetto sembra essere piuttosto forzato, ma è l’essenza del discorso di Herbie Hancock che ci deve far riflettere: ancora una volta infatti ci troviamo di fronte un artista in grado di mettere in contatto linguaggi che potremmo definire distanti tra loro anni-luce; ma se anche questi possono tentare un avvicinamento, non potranno non riuscirci uomini e menti ben più vicine, in nome di una grande fratellanza universale, volta al reciproco rispetto e ad una nuova e costruttiva unione di popoli.

Il nostro viaggio musicale si conclude qui; abbiamo cercato di seguire un sottile motivo conduttore nell’analisi di questi affascinanti artisti. Alcuni risultano certamente molto famosi anche al grande pubblico, altri hanno contribuito nell’ombra allo sviluppo di questa musica. Tutti comunque si sono avvicinati alla musica africana, sempre rispettandone i significati più reconditi anche e soprattutto extra-musicali, perché, mai come per l’Africa, la musica è parte indissolubile dell’anima e della cultura dell’uomo. Continueremo, nei prossimi appuntamenti, a parlare della grande cultura afroamericana dal punto di vista del cinema, stavolta, preannunciando che sosteremo a lungo su l’opera del, forse, più celebre cineasta afroamericano: Spike Lee.

Note.

* Stefano Zenni, Herbie Hancock, jazz, Buddha e funky a 88 tasti, 1999, Viterbo, Stampa Alternativa, pag. 19.
** Jack Chambers, cit. in Stefano Zenni, op. cit., pag. 26.
*** Herbie Hancock, cit. in Stefano Zenni, op. cit., pag. 21.
**** Stefano Zenni, op. cit., pag. 23.
***** Stefano Zenni, op. cit., pag. 34.
****** Herbie Hancock, intervista con Federico Scoppio, su Musica Jazz anno 64° n.2, op. cit., pag. 16.
******* Stefano Zenni, op. cit., pag. 73.
******** Luigi Onori, cit. in Stefano Zenni, op. cit., pag. 82.