Tre cene (L’ultima invero è un pranzo), Francesco Guccini, recensione libro

Ogni volta che mi ritrovo a leggere un romanzo scritto da Francesco Guccini, mi pare di sentire l’armonica inflessione della erre, come fosse legata alla rinomanza del semplice nome. Un’inflessione fonologica che, almeno nel mio caso, mi continua a riportare alla mente i deliziosi siparietti che il cantautore modenese regalava durante i suoi concerti.

La mia immaginifica percezione potrebbe essere semplice nostalgia di quelle kermesse musicali del recente passato o forse, più semplicemente, un’inconscia e rasserenante necessità perduta.

Anche se Guccini ha ormai appeso il microfono al chiodo, con una buona frequenza, i suoi fan possono consolarsi con la sua verve narrativa, non solo animata dalle trame a quattro mani con Loriano Macchiavelli, ma anche mediante opere deliziose come Il piccolo manuale dei giochi di una volta e Tra i castagni dell’Appennino. Proprio da qui l’autore della Locomotiva riparte, armato di un’arte narrativa ricca di stile, coraggio e sorrisi.

Tre cene (L’ultima invero è un pranzo), pubblicato da Giunti, racconta di  tre piccole storie, in cui il linguaggio ricco e forbito ci invita al tavolo di alcuni amici. Tre piccole vicende che, invero, non celano particolari colpi di scena, ma mirano ad osservare tempi differenti, mediante una descrizione filmica che, soprattutto nella sua prima parte, sembra voler riportare i lettori al Bertolucci di Novecento.

Il romanzo ci accompagna così ad errare tra notti imbiancate, eclissi estive e strade impervie, arricchite da cibo, amore, amicizia, ricordi e vino, reali trait d’union di un mondo semplice e senza tempo, in cui il dialetto e la malinconia, qui privata di rassegnazione, ci prendono per mano per andare incontro alla conclusione di un’opera che nasconde la struttura espressiva di uno dei tanti capolavori musicali che Guccini ha fissato nel tempo.