Ruxt “Labyrith of pain”, recensione

Ho bisogno di cambiare registro. Oggi (un giorno qualsiasi di Marzo 2021) vorrei strutturare la recensione in maniera diversa… perdonatemi se non dovesse piacere, ma ho la necessità di modificare il canovaccio.

 

Prima di ascoltare

Quella di Labyrith of pain è una di quelle cover art che, anche negli anni ’80 mi avrebbero convinto ad acquistare il vinile. Oggi siamo soliti ascoltare in streaming un disco per poi decidere se acquistarlo, ma trent’anni fa scegliere, talvolta, era anche una conseguenza della copertina. Non nascondo come ancora oggi quella sensazione di mistero e voglia di scoperta mi appartenga. Spesso le mie recensione arrivano dopo un pre ascolto, ma non è sempre così. Ad esempio, per questo nuovo full lenght dei Ruxt, di cui sto scrivendo ancor prima di aver ascoltato una sola nota, ho deciso di parlare non sapendo nulla della band, né tanto meno delle loro sonorità.

Infatti, mi ritrovo ancora qui ad osservare le tonalità di nero di un labirinto in cui sto per entrare, spinto da un font-monicker che mi ha deliziosamente trainato verso la mia adolescenza. Osservando l’interno del booklet, però, mi sono reso conto che l’imperdonabile mancanza dei testi e una struttura grafica sommaria non riesce a risponde alle mie attese.

Ma, andiamo oltre.

 

Ascoltando

Indosso le cuffie, ed inizio l’ascolto. A dare battesimo alla set list è proprio la titletrack e, dalle primissime note, mi faccio avvolgere dai passaggi chitarristici, immediatamente in grado di dipingere un genere: l’hard’n’heavy. L’andamento strutturale della traccia mette in evidenza, sin da subito, le piacevolezze della nuova uscita: ottime armonizzazioni ed un timbro vocale particolarmente attrattivo. Infatti a colpire nell’immediato (almeno me) è la vocalità del frontman che, tra sovrapposizioni e controcanti, cavalca le sei corde, mostrando graffi e riverberi piacevolmente narrativi. Lo stile, come dimostra November rain (attenzione…nulla centra con il mondo dei Guns), sembra trovare linfa nelle fronde degli anni ’80, ponendosi, però, su di un piano comunicativo diretto ed attualizzato che, per certi versi, sembra avvicinarsi ad armonie Headless cross.

 

 

 

Il disco mi porta poi nel riffing di Love affair, che mi invita nel ventre dei Ruxt, pronti a virare verso edulcorazioni funzionali. Cerco i testi…, sbuffo, e allora mi faccio cullare dal mood che si fa più cadenzato e disteso con Back on track, per poi volgere verso le distorsioni filtrate di What you give is what you get, composizione immediata, in cui gli stop and go lasciano spazio alle pause, incalzate dai riusciti dialoghi tra le sei corde e le pelli di Alessandro Attila Fanelli, bravo nel dettare i tempi.

Se poi What keeps me loving you la bass line ci guida tra gli osservativi passaggi rock ‘ n’ blues è con Time to fight again che la band raggiunge il proprio apice, mostrando cromatismi heavy che piaceranno a coloro che hanno amato il Dio di Dream Evil. Mi rendo conto di essere giunto alla fine… e a chiudere il disco è la melanconia strumentale di Butterflies, una lunga suite wordless in cui perdersi tra immagini nuvolari e background estesi.

 

 

Dopo l’ascolto   

Termino ora l’ascolto. Riguardo la copertina e mi dico soddisfatto: anche questa volta non avrei sbagliato acquistando il disco al buio, perché la buona opera di Steve Vawamas riesce a dare un vestito ad un disco che, di certo, non uscirà facilmente dalla colonna di dischi da riascoltare.