Sting – The Bridge – Recensione Album

Ho sempre apprezzato Sting per la sua musica e la sua classe, ma anche come persona per i suoi ideali. Artisticamente, ha vissuto la sua Golden Age con i Police e poi grazie ai suoi primi album solisti (a mio avviso fino a Ten Summoner’s tale del 1993). La sua vena creativa si è progressivamente affievolita, fino a trasformarsi in qualcosa di totalmente diverso da quello per cui tutti lo amavano. Mi riferisco ad album volutamente di nicchia (Songs from the labyrinth del 2006), che sperimentavano in altri campi musicali per i quali a molti è risultato piuttosto difficile seguirlo. Nel 2016 ha pubblicato un disco 57th & 9th che, in qualche modo, lo riportava su sentieri pop/rock, ma in realtà non ha lasciato granché il segno.

In piena pandemia nel 2020 ha iniziato, come molti suoi colleghi, a scrivere nuovi brani per questo The Bridge, collaborando a distanza con alcuni musicisti importanti del calibro del percussionista Manu Katche e del grande sassofonista di successo Brandford Marsalis, che già suonarono con lui in Nothing like the sun. Risultato: ne è uscito un album ispirato, con un sound radiofonico nettamente più vicino ai suoi migliori lavori del passato e che quindi rappresenta a tutti gli effetti una sorpresa positiva per i suoi numerosi fan. Già prima dell’uscita del disco, i due singoli apripista avevano lasciato ben sperare. Rushing Water è il primo dei due e ciò che immediatamente “salta all’orecchio” sono, da una parte, il livello della sezione ritmica e dall’altro il ritornello orecchiabile, che non ha bisogno di ulteriori ascolti per far venire voglia di rimetterlo su.

Non è da meno la romantica If it’s love che invita ad arrendersi all’amore quando abbiamo la fortuna di incontrarlo, mentre il mood è spensierato, perfetto per la mattina di una domenica assolata. Harmony road (scritta con il chitarrista amico Dominic Miller) sembra un brano di un’epoca lontana, non tanto per gli strumenti usati per arrangiarla, ma per l’approccio di Sting nel cantarla con una cadenza da cantastorie. Il tocco di Marsalis, qui, vale il prezzo del biglietto. For her love è un altro episodio di rilievo, tendenzialmente acustico, ma pur richiamando alla mente Shape of my heart (pezzo oggettivamente inarrivabile) non credo possa trovare la stessa fortuna.

Meritano una menzione anche The hills on the border e Captain Bateman (storia di un marinaio imprigionato a vita in un paese straniero) entrambe impreziosite dal violino di Peter Tickell. Il brano che preferisco in assoluto è The bells of St Thomas che prende ispirazione da un quadro di Rubens, pittore fiammingo di Anversa. La serenità che riesce a trasmettere in poco meno di 4 minuti è un’esperienza da vivere. Il finale con l’essenziale The Bridge (voce e chitarra), che usa il ponte come allegoria di ogni passaggio da una situazione ad un’altra, è la degna chiusura di questo LP che ci restituisce finalmente uno Sting che cerca di spaziare un po’ in tutte le direzioni della sua carriera, pur non spingendosi mai veramente fino ai confini del rock. Poco male perché per me, come credo di aver ampiamente chiarito, resta un ottimo disco.

PS: l’edizione Deluxe contiene 3 bonus track, tra cui una cover di Sitting on the dock of the bay più che dignitosa