Zucchero – Discover, recensione album

Zucchero Discover – Premessa (Serve? Serve)

Nuovo album per Zucchero, un cantautore che ormai è parte della storia musicale di questo paese e che, tra alti e bassi, tra consensi unanimi, qualche polemica e discontinuità varie lungo la produzione, indiscutibilmente ha rimesso soul, blues e funky sui grandi palcoscenici nazionali in contesti pop che spesso si guardavano bene dal superare i confini italiani, o al più colorivano di mediterraneo un’internazionalità che nei fatti non c’era.

L’introduzione era necessaria, perché contestualizza una recensione che trova questo album un episodio del nostro che…

che…

eh no, cari miei, ora vi sorbite tutto il seguito, qui non si anticipa niente.

Dunque: album di cover, una scelta per la quale in tantissimi passano e che si traduce poi in risultati diversissimi tra loro, legati alle intenzioni; si punta ad omaggiare? Stravolgere? Personalizzare col dovuto rispetto? Spostare in altra direzione l’originale? Queste ed altre domande determinano progetti molto differenti che vanno da capolavori assoluti al karaoke. Insomma, c’è da stare attenti.

Tornando a noi: com’è andata qui? Andiamo secondo tracklist.

I brani di Discover

No time for love like now e Let your love be known soffrono di problemi affini: consideriamo serenamente che si partiva già da originali che non catalogheremo tra gli episodi musicalmente più felici dei rispettivi autori Michael Stipe e Bono, ma si è comunque scelto di rendere entrambi anche un po’ meno fascinosi, rinunciando ad un qualsivoglia spunto emotivo ed affidando a qualche riverberazione tracce di evocatività.

The scientist, monster hit dei Coldplay che di suo può piacere o meno ma ha un suo sound, qui viene resa direi intenzionalmente flat, perché scorra (…) da inizio a fine per farci vivere minuti nella costante attesa di un salto, di un’impennata anche solo sonora.

Che non arriverà.

Wicked game ha dalla sua un uso del riverbero vincente, efficace, finalmente consono per atmosfera al brano originario (di Chris Isaak, ove non lo ricordaste), nonché un minimo di ampiezza nel paesaggio sonoro che dona -doveva succedere, evviva- qualche spazio di manovra in più all’album, anche se pure qui ci si guarda bene dal fare un passo di troppo che rischi di far ricordare la cover almeno per differenza con la memoria.

Luce, di Elisa, certo non innesca grida unanimi di rivoluzionario giubilo da esaltare folle di genti, ma riesce per prima nella tracklist ad avere una personalità propria di brano a sé, che possa essere ogni tanto ascoltato in luogo del suo predecessore. Contribuisce al risultato anche il bell’intervento finale dell’autrice.

Follow you follow me è forse il momento più infelice dell’album: chitarre, effetti, rotondità varie non riescono a dare un briciolo di originalità al brano che consacrò i Genesis nel ruolo di band coi fans più devastati dell’universo, divisi tra quelli del progressive che hanno odiato la svolta pop, quelli del pop che non digeriscono il progressive e quelli che sciallano. Tornando all’originalità mancata, d’improvviso l’obiettivo viene invece raggiunto; si sceglie di sostituire un accordo maggiore pulito pulito con qualcosa che accompagna la voce come solo una lavagna con un gessetto spezzato sa fare. Come sia venuto in mente non si sa né si vuol sapere, ma son considerazioni da nerd; resta, al netto del cazzotto armonico, la sensazione chiara di un brano che poteva essere toccato solo con estrema cura e che invece… boh, ascoltate pure.

Natural blues prova con Mahmood a risollevare le sorti di una faccenda che lungo l’ascolto si stava facendo veramente dura. L’atmosfera riporta direttamente a Vera Hall più che a Moby, per cui c’è un mood (oltre che un Mahmood, ok, andava scritto) che funziona, terrigno e ruvido, con le due voci a camminare in modi complementari lungo un pezzo che purtroppo, però, in più di quattro minuti non trova -di nuovo- variazioni di sorta.

Fiore di maggio, gioiello senza età di Fabio Concato, qui trova una resa sensata, credibile sostanzialmente per intero a parte l’assolo con soluzioni fuori contesto e il curioso timbro di synth molto eighties che caratterizza le strofe ignorando quarant’anni di evoluzione digitale. Qualche solennità di troppo nei ritornelli, ma vediamola come un omaggio alla grandezza del brano…

Human ripulisce la personalità un po’ sporca dell’originale (anche perché quelle scelte li ce le eravamo appena giocate durante Natural blues, proprio riportando l’ascolto sostanzialmente su Human, e pareva brutto ripetere); come conseguenza il tutto suona magari un po’ algido, avendo naturalmente in testa Rag’n’Bone Man, però a suo modo funziona perché il lavoro di produzione arriva compatto, compiuto, e alla fine conta tutto sommato questo, l’intenzione. Sperando fosse questa, certo.

Con te partirò: qui c’è l’atmosfera che piace a chi cerchi lo o il Zucchero di Miserere, ancora una volta volendo scavalcare qualche perplessità sui suoni scelti: un organo che suona artificioso, una chitarra “grossa” quanto il pizzicato di una sezione d’archi… per carità, può piacere. In caso ditecelo: dobbiamo parlare.

High Flying Bird tiene con sé il blues, ha l’aria un po’ più nervosa di diverse sue precedenti edizioni (per esempio i Jefferson Airplane) e tira dritto su una tensione che avrebbe anche un senso se portasse ad un compimento, un’escalation, un… no, punta al brano successivo, niente.

Il successivo però è Ho visto Nina volare, ed ha dignità e valore perché c’è un rispetto evidente nella costruzione, rivisitata senza voler toccare troppo, dovuto con tutta probabilità anche al fatto che Fabrizio De André la canta “con” Zucchero, tornando ad emozionarci con un duetto virtuale ma riuscito.

Lost Boys calling è l’ultimo brano. Fa parte della colonna sonora di La leggenda del pianista sull’oceano, gran film di Giuseppe Tornatore basato sul libro di Alessandro Baricco; l’ha cantato a suo tempo Roger Waters, che ne ha scritto il testo. Insomma, si chiude alla grande omaggiando l’autore Ennio Morricone, con una rivisitazione che si limita giusto a sfiorare le intenzioni del maestro con l’aggiunta di chitarre senza spostare le cose, e assieme alla canzone precedente concede un finale di album degno e con una logica.

Quindi?

Bene.

In sintesi?

Album necessario nel percorso musicale di Zucchero? Uhm, anche no.

Poteva andare meglio? Beh, Mettiamola così: Poteva anche piovere.