Babylonia “Multidimensional”, recensione

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Ogni Umano vivente è multidimensionale ed è in molti luoghi allo stesso tempo. Anche mentre state leggendo lì seduti, parti e frammenti di voi sono in altri luoghi a fare altre cose.

Difficile definire con armonica sostanza il concetto di multidimensionale. Un aspetto legato imprescindibilmente a conoscenza, speranza, intuizione ed apertura mentale, in grado di raccontare valori intratestuali di aspetti significativi e al contempo misterici.

Sembrano voler partire da qui i Babylonia…partire per raccontare un disco fondamentalmente synth-pop.

Multidimensional racconta 13 narrazioni imprigionate tra i vertici di sperimentazione (poca), elettronica e rimandi dance, sorprendendo non solo attraverso sonorità ben bilanciate, ma anche per mezzo di un digipack accattivante, in cui la sopracitata multidimensionalità viene metaforizzata da forme geometriche dell’inlay e dalle armonie grafiche della cover art. Un’opera delicata, che rivive nel booklet stesso mediante un font leggero, qui penalizzato da uno photo session eccessivamente patinata e poco in linea con il prodotto distribuito da Universal Music.

Max e Robbie sembrano volersi rappresentare come due similari entità euritmiche che tendono ad avvicinarsi, e quindi a comunicare, poggiandosi su di una realtà definita da orizzonti differenti, punti iniziali di un percorso raffinato e sui generis, da cui emergono reminiscenze Depeche Mode.

Il mondo dei Babylonia si erge tra archi, approcci sintetici e sei corde, pronte a ridefinire un percorso “Concept”uale che si incanala verso un sentiero dinamico ricco di sfumature, proprio come dimostra l’opener Penumbra. Un’apertura in grado di raccontare con la diretta semplicità del pop, una venatura elettronica, in cui trovano posto arrangiamenti easy, ma al contempo riusciti. La traccia entra subito nell’aurea percepita, per poi aprirsi a rimandi vintage, atti ad evolvere nell’incipit di Save the world, tra le migliori composizioni del full lenght. Infatti, i battiti profondi dai sapori Depeche giungono a disegnare poi striature cripto-Industriaie, che ricordano alcuni episodi degli ultimi Muse. Nonostante poi un inciso facile, il brano offre una strutture riuscita, così come accade in Love is healing.
Il singolo,infatti, getta uno sguardo tra manierate sensazioni emozionali, ricche di note abili a recuperare i rintocchi eightees.

Con Back to you il campo si chiude poi su sensazioni dance, che eludono la contemporaneità, modulando i propri respiri sulla nostalgia del nostro recente passato, reso osservativo e melanconico dalla dolcezza alternativa di My song is love. Il brano posto tra echi e backvoice regala all’ascolto una reale ed innatesa veste, pronta a dare spazio alle idee di Trace of you, che sarà amata chi ha vissuto il synth pop anni 80.
A chiudere il disco (a mio avviso eccessivamente lungo) è infine A te che resti, soave e nuvolare melodia narrata in lingua madre, che per certi versi che ricorda il Guccini di Vorrei, mostrando un intuito cantautorale che appare maturo, ma ancora parzialmente inespresso.