Dirty Italian Job – Hungryheart – recensione cd

CD cover

L’Italia ha ancora talenti da proporre con orgoglio sul mercato musicale nazionale ed internazionale. Questa è l’oggettiva conclusione alla quale sono arrivato ascoltando Dirty Italian Job, terzo disco degli Hungryheart (che esce a 5 anni dal precedente “One ticket to Pradise”), band di Lodi che, in realtà, sembra venire da oltre oceano, ma soprattutto da un’altra epoca. Sì perché il loro hard rock, forte e deciso, mi ricorda quello di gruppi storici che spopolavano nelle classifiche degli anni ‘80 come Foreigner, Reo Speedweagon o Europe. Verrebbe quasi da dire: “Lascia stare, roba così portentosa oramai non la fanno più”, e invece è proprio una bella sorpresa potersi gustare, ancora nel 2015, 12 pezzi curati e suonati alla grande da un gruppo chiaramente molto affiatato che unisce energia, melodia e tecnica.

Al centro del progetto di questo palpitante “Cuore affamato” ci sono da una parte i due fondatori: Mario Percudani, produttore e chitarrista talentuoso, nonché titolare della Tanzan Music – casa discografica che ha pubblicato il disco – insieme al cantante Josh Zighetti, dalla voce potente, quando serve, ma anche delicata come una carezza negli episodi (in realtà pochi) in cui si tratta di sedurre con powerballad di gran classe. Dall’altra parte si distingue per precisione e potenza la coppia della sezione ritmica, rispettivamente formata dal bassista Stefano Scola e dal batterista Paolo Botteschi, che accompagnano alla perfezione i primi due, così come farebbero due forti e rocciosi mediani per i propri attaccanti fuoriclasse.

Entrando nel merito dell’album, dovendo scegliere per ovvi motivi di sintesi i brani che spiccano di una spanna sugli altri, cito senza dubbio “Shoreline” (non a caso scelto come singolo apripista) che parte con un approccio quasi dolce per poi esplodere quasi subito al momento del radiofonico refrain, entrandoti subito in testa al primo ascolto. Vi assicuro non ne uscirà tanto presto. Dello stesso calibro è “Time for letting go” (qualche eco della versione più aggressiva dei Toto) dal piglio decisamente più uptempo, ma con le medesime ambizioni da hit. Fra le backing vocals ritroviamo quel Giulio Garghentini, nostra vecchia amicizia, la cui intervista su Di-Roma è stata ormai letta da quasi un migliaio di persone. Altre canzoni veramente notevoli sono poi le due ballate rock: la romantica “Nothing but you” – essenzialmente acustica e con il piano di Alessandro Del Vecchio sullo sfondo – e la più rockeggiante “Second hand love” (che ricorda il miglior Bon Jovi style di Slippery when wet). Nella prima l’assolo di chitarra di Percudani vale il prezzo del biglietto, mentre la seconda è semplicemente da sogno e personalmente la ritengo anche la migliore in assoluto di Dirty Italian Job.

Pur essendo tutto il resto del disco di altissimo livello, voglio ancora sottolineare “Rock steady” per la sua carica e capacità di afferrarti quasi fisicamente. È un pezzo che sintetizza a mio avviso lo spirito della band e di tutto il progetto: prendere idealmente l’ascoltatore di peso e trasportarlo a suon di schitarrate in un altro luogo (verosimilmente l’America) per fargli vivere una piacevole ora di nostalgico e puro rock n’roll.