Ellie De Mon “Pagan Blues”, recensione

Un elegante digipack per un elegante full lenght.

Porta il nome di Pagan Blues la nuova opera di Ellie De Mon, talentosa One Woman band fautrice di un rock and Blues sporco, angusto e avvolgente, posto tra polveri d’oltreoceano e reiterazioni visionarie. Un sound ricco di influenze proto-punk che, partendo da derivazioni della Londra di fine anni 70, giunge in oriente per poi approdare nei deserti a stelle e strisce (Desert song).

L’album, trainato dalla straordinarietà di un impeccabile overture (The fall), definisce un battito sonoro che, pur appoggiandosi alle radici Blues (Catfish Blues), riesce ad esternare uno sguardo dall’esteso orizzonte. Infatti, questa settima fatica della polistrumentista vicentina, oltre a racchiudere impronte emozionali (I can see you), non dimentica venature ossessive (Star), in cui la lapsteel guitar gioca con un timbro vocale evocativo e psichedelico.

Le tracce, spesso ammalianti  e a tratti tribali, si offrono come potenziali anthem di un disco pronto a farsi amare sin dal primo ascolto. Un’opera in cui il battito ossessivo delle note (Thiking) viaggia attraverso la soavità espressiva, qui pronta a sporcarsi con anime garage, che ritroviamo nell’oscurità di Pagan Blues, avvolgente e cupa.

L’album, consigliatissimo nella sua versione fisica edita da Area Pirata, va a chiudersi con l’onirica Siren’s Call costruita attorno ad un ipnotico suono del sitar, sentiero marcato di un mondo pronto a terminare con Troubled, silenzioso atto di chiusura di un album narrativo, vivo e scevro di banalità.

Tracklist

1.The fall

2.I Can See You

3.Desert Song

4.Catfish Blues

5.Star

6.Ticking

7.Pagan Blues

8.Sirens’ Call

9.Troubled