Lettura critica dell’unità italiana attraverso le canzoni

Viva l'Italia

La ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia mi porta a fare una serie di riflessioni, alcune delle quali squisitamente personali, altre più specificamente civico-sociali e altre ancora (ed è, in questo contesto, la cosa che ci interessa di più) legate al mondo della musica e della canzone.

Dal punto di vista personale, vent’anni di insegnamento con centinaia e centinaia di ragazzi mi hanno convinto che la crescita culturale ed educativa di intere generazioni non è e non è mai stata la priorità delle decine di governi che, in questo periodo, si sono succeduti; mentre dal punto di vista civico-sociale vivo con continuo disappunto (misto ad una sempre più crescente rassegnazione) l’ampliarsi non solo dell’annoso (e delittuoso) divario nord-sud, ma anche dell’abisso che ormai separa la realtà vissuta dagli uomini politici dalla realtà della stragrande maggioranza di noi cittadini.

Vista in quest’ottica, la ricorrenza dei 150 anni da quando (dicono) il nostro paese è stato (dicono) unificato, mi provoca un sorriso a metà strada tra l’amarezza e lo sgomento (amarezza per quello che non è stato fatto e sgomento per quello che ancora potrà essere fatto).

Ma lo scopo di questo articolo è tentare di dare, di questo anniversario, una chiave di lettura attraverso i testi di alcuni tra i più grandi cantautori italiani:
Viva l’Italia di Francesco De Gregori (tratta dall’album omonimo del 1979);

Italia di Antonello Venditti (tratta dall’album Sotto la pioggia del 1982);

Dolce Italia di Eugenio Finardi (tratta dall’album omonimo del 1987);

Povera patria di Franco Battiato (tratta dall’album Come un cammello in una grondaia del 1991).

La prima canzone, splendido ‘anthem’ del cantautore romano, riflette, certo, gli anni in cui fu scritta (erano gli anni in cui il terrorismo ancora imperava quasi indisturbato), ma getta uno sguardo più onnicomprensivo, tra l’amaro e lo sconsolato, sulla realtà italiana “assassinata dai giornali e dal cemento” e sul nostro paese dipinto come “metà giardino e metà galera”, “metà dovere e metà fortuna”: sono passati oltre trent’anni da quell’Italia dipinta da De Gregori, ma sembrano immagini maledettamente attuali.

Il riferimento al “12 dicembre” (il 12 dicembre del 1969 ci fu la strage di matrice neofascista nella Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano) è stato spesso (scioccamente e in mala fede) interpretato in una luce biecamente autoritaria e stragista, quando, invece, De Gregori fa (ovvio) riferimento alla reazione che l’avvenimento suscitò nei settori più democratici e antiviolenti della società civile.

L’ultimo verso, “Viva l’Italia, l’Italia che resiste”, mi consola e mi atterrisce allo stesso tempo: so che c’è (come c’era nel 1979) un’Italia che non si arrende al malaffare (politico e non), ma so anche che questa resistenza pare affievolirsi sempre più, in un clima di assuefazione al peggio che impera intorno a noi.

La canzone successiva (composta in realtà da Venditti qualche anno prima della sua effettiva pubblicazione) è un brano minore della produzione del cantautore romano, scritta in un divertente spagnolo maccheronico dove, con una piacevole ironia vengono messi in bella mostra i difetti dell’Italia e degli italiani (con alcune stoccate a politici italiani che c’erano e ci sono ancora…).

Nel finale il sarcasmo amaro prende il posto dell’ironia: “Ed el pueblo che fa? Canta! Canta! Canta!” Come sempre, in attesa del nuovo padrone che ci promette la luna e che, invece, ci fa precipitare ogni volta in un pozzo più profondo.

La terza, delicatissima canzone, vede Eugenio Finardi alle prese con la sua doppia nazionalità che gli consente, da italo-americano, di vedere in prospettiva pregi e difetti nostri e loro: ma perché, se siamo dotati, come lo siamo, di sensibilità, perspicacia, gentilezza, educazione, gusto e quant’altro, dobbiamo scimmiottare chi queste doti ce le ha in misura notevolmente inferiore (“ma poi tornati qui a Milano, sembrano tutti americani, vivono vite di sponda ciechi ai loro problemi”)?
Perché l’erba del vicino (soprattutto se impone la sua ‘pax’ con la forza…) è sempre più verde, perché noi colmiamo il nostro presunto senso di inferiorità imitando chi ha più muscoli di noi, perché… perché… perché…

Concludiamo questa sintetica carrellata col brano più buio, ma, nello stesso tempo, più splendido e raggelante: “Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore”.
Le parole di Battiato risalgono a 20 anni fa, ma mi si gela il sangue a vedere quanto siano attuali!

“Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?” Battiato continua così e sembra sempre più di provare una sorta di disorientamento temporale: ma che Italia è mai questa, Italia di cui si accingono a festeggiare… ma festeggiare cosa?

“Che non si parli più di dittature, se avremo ancora un po’ da vivere. La primavera intanto tarda ad arrivare”: Battiato termina con uno sconsolato lirismo che, davvero, lascia esiguo spazio alla speranza.

Povera patria!