Montauk”Montauk”, recensione

mountak.jpg

Come rimanere impassibili di fronte ad un opera come quella di Montauk? Impossibile… proprio come di fronte ad un neorealismo filmico scarno e perfetto all’unisono. Infatti, questo delizioso packaging, stretto da un bianco elastico, si scosta dall’usuale grazie alla sua veste cartonata , intesa proprio come cartone da imballaggio la cui anima ondulata definisce un architettura robusta e leggera, metafora della musicalità contorta della band.

Su scarno sfondo, l’immagine di un capanno si staglia nella sua semplicità, avvolta ad una criptica nota (forse) legata all’immaginifico del Progetto Montauk ed i suoi presunti esperimenti governativi. Da quella fragile struttura in legno partono le note di un disco selftitled che, con un fisiologico andamento ciclotimico, conquista e avvolge attraverso sonorità pronte ad appoggiarsi ad esplosioni indie, narratività Offlaga e blande derive slo-core, prive però di un eccesso sad-core, per riuscire a dar risalto ad implosioni post di riguardo.

La band (Pietro Marras, batteria, Paolo Masiero,chitarra, Alessandro Micci,basso, Vincenzo Gramegna, voce) arriva dalla fervente Bologna, macchiata delle acredini di un mondo perso, raccontato con una vocalità interessante e ben assestata su strutture musicali prive di inutili fronzoli. Da queste premesse il combo parte armato di un pattern ritmico molto incentrato sulle quattro corde, atte a ricreare atmosfere talvolta cupe e minori, proprio come accade in Da Quando Non Siamo Più, stranita composizione le cui toniche definiscono un approccio teatralizzato di un atteso climax sonoro, tanto sofferente quanto inquieto

Il lo-fi guidato da Bruno Germano arriva a mostrare i suoi spigoli con il cripto punk rock de Song No Tomorrow, di certo non adeguata ad orecchie banali, proprio come dimostrano Nessuno partirà e la silente arte di Piove, traccia immaginata da Elisa Gattafoni, chiusa tra le note cadenti e leggiadre, abili ad inerpicarsi su di un dna ridondante e regolare.

Il meglio di sé il disco però lo regala con il trittico iniziale, in cui si concentrano le idee espositive di un quartetto alternative che ha coraggiosamente deciso di utilizzare la lingua madre per definire sarcasmo e reimpostazione dedita ad un ricercato uso descrittivo. Con l’opener, infatti, il visonario e zencircusiano approccio abbraccia una perfetta sezione ritmica, da cui emergono un interessante funzione sonora ed un insieme di implosioni controllate, stoppate in un alternative vocale votato ad un osservativo animo punk. Con Come Fossi Il Tuo Cane non manca poi un oculato sarcasmo surreale, amplificato da filtri vocali e passaggi ferrettiani, pronti ad anticipare l’andamento Disco Pax di Il bruco, da cui emerge un aurea di vacuità in cui il narratore si rende incapace di colorare la descrizione della propria vita. Una traccia per certi versi malinconica, che chiude agli accordi la possibilità di dilatare inevitabili sensazioni anni’90.

Tracklist:

01. Io
02. Come Fossi Il Tuo Cane
03. Il Bruco
04. Song No Tomorrow
05. Il Mondo
06. Da Quando Non Siamo Più
07. Nessuno Partirà
08. Piove